Sinfonia o cagnara? “White God” racconta l’egoismo dell’uomo nell’ottica degli animali. Ma è troppo autoriale

Non basta una tromba suonata nell’angustia di un bagno per fare un film d’autore. Nemmeno se la protagonista, Lili (Zsófia Psotta), è un’adolescente ribelle, figlia infelice di genitori separati e in disaccordo, consolata solo da un cane meticcio, che lei ammansisce con le note del suo strumento. White God di Kornél Mundruczó inizia con un esercizio di stile, una ragazzina che pedala in una Budapest deserta. Potrebbe essere l’alba per giustificare tanta desolazione, ma la luce è piena e ferisce gli occhi di Lili.
Bella è la geometria delle strade ripresa dall’alto, cavalcavia e snodi di vie sottostanti, gli eleganti palazzi asburgici, alti e maestosi, la loro armonia rosicchiata dalla modernità.


La macchina da presa in pochi movimenti spiega che Lili è inghiottita dal limen dei suoi tredici anni. Le ciglia appena annerite dal mascara, la felpa, uno zaino sportivo da cui spunta la tromba taumaturgica, un paio di scarpe nere con i tacchi indossate su calzette candide: l’indecisione di essere donna o bambina. Un dissidio interiore, quello adolescenziale, già scavato nel più incisivo Tender son – The Frankenstein project (2010) con i tormenti di un giovane cresciuto in un istituto e rifiutato dalla famiglia d’origine. Un alveo, quello familiare, che il regista ungherese, classe 1975, h abitué della Croisette di Cannes (con White God ha vinto il Prize a “Un Certain Regard”), indaga nelle sue devianze feroci, non solo nel rapporto filiale e genitoriale, ma anche in quello fraterno, come in Pleasant Days (2002), dove un ex-galeotto non esita a tradire la sorella per un nuovo amore.

Sul ponte Lili incontra un’auto con le porte spalancate e i fari ancora accesi, un autobus lasciato nel mezzo di una curva, come in una città depredata dopo un uragano, ma con lo smalto intatto. Poche pedalate dopo un manipolo di cani bastardi si affanna dietro alla biciletta di Lili: presagio, sogno, verità non è chiaro. Salvo poi rivedere la ragazzina con il suo cane Hagen giocare su un prato con controluce accecanti e cambi di fuoco disinvolti.
La torma di animali in sé non ha niente di spettrale, ma è l’intorno senza vita che suggerisce un futuro prossimo oscuro, accentuato dalla gravità delle Rapsodie ungheresi . Mundruczó certo non sussurra, calca piuttosto la mano, alludendo con metafore di facile comprensione. Come quando Daniel (Zsótér Sándor), il padre di Lili, nello spogliatoio del macello in cui esercita come veterinario, cerca di togliersi con angoscia una macchia di sangue penetrata sotto il camice. Poco prima aveva assistito, riluttante, allo spettacolo di una carcassa di bovino spellato, tagliata in due brutalmente da una sega elettrica, e ne aveva sezionato il cuore per stabilire l’idoneità al consumo. Una scena che porta alla mente Se niente importa (Guanda, 2010) di Jonathan Safran Foer e il meccanismo tramite cui la nostra indole carnivora ci trasforma in violenti e indifferenti torturatori di bestie. Anche se l’autore ha dichiarato di essersi ispirato alla letteratura del premio Nobel J. M. Coetzee sullo sfruttamento delle specie più deboli da parte di esseri intelligenti e razionali. L’uomo bianco, colonizzatore e tiranno che si erge a Dio, White God per l’appunto, giocando nel titolo sull’allitterazione God/Dog. In questo caso gli emarginati e gli esclusi sono i cani randagi, che una legge ungherese, per favorire gli esemplari di razza, impone di registrare dietro pagamento di una tassa, pena la reclusione in canile. Pericolo che corre anche Hagen, abbandonato da Daniel, dopo la prima notte di un lungo periodo di accudimento di Lili, la cui madre è partita per l’Australia per tre mesi. Hagen si unisce a una schiera di irregolari, che nella sua compattezza finisce per essere spaventosa.
Il film, suggerisce il regista ungherese, è una allegoria “ammonitoria” verso i potenti che si nutrono nella globalizzazione alle spalle dei disagiati. E un’incitazione agli umili perché si ribellino, come voleva Stéphane Hessel nel suo Indignatevi! (Add editore, 2010). D’altronde anche Godard nella sua più recente opera, Adieu au langage – Addio al linguaggio, vede la speranza ultima dell’umanità in un cane. Come Sivas di Kaan Müjdeci, passato a Venezia lo scorso anno, descrive il rapporto ambivalente, amore-carneficina, tra un ragazzino e il suo cane da combattimento.

L’epigrafe iniziale di White God è un bel verso di Rainer Maria Rilke:«Tutto ciò che è terribile ha bisogno del nostro amore». Dal lì o si decolla o si scivola: e qui , nonostante l’intensità e la coreograficità di certe scene, il terreno è molto sdrucciolevole.