Bennett Miller racconta una storia vera di plagio piscologico e fisico tra due atleti olimpici e il magnate du Pont
In punta di piedi, anche se sono quelli di due corpulenti lottatori. Se c’è un modo per esprimere coazione psicologica e violenza fisica sottovoce in maniera credibile, Bennett Miller c’è riuscito in Foxcatcher. E ha più che meritato il premio alla regia allo scorso festival di Cannes, in primo luogo per aver raffreddato una tragedia con immagini severe e controllate, potendosi anche permettere la colonna sonora tesissima firmata da Rob Simonsen.In seconda battuta per l’abilità nel guidare i suoi attori, già dimostrata con Philip Seymour Hoffman che per il suo Truman Capote – A sangue freddo vinse l’Oscar nel 2006 come migliore interprete maschile.
Miller inietta la stessa lentezza e misura dei gesti dello scrittore americano nei due fratelli, Dave (Mark Ruffalo) e Mark (Channing Tatum) Schultz – entrambi medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1984 nella lotta in diverse categorie – e John du Pont (Steve Carell), erede di una delle più ricche e potenti dinastie industriali americane. La storia su cui è basata la sceneggiatura di Foxcatcher è vera, come nel caso delle pellicole precedenti, il rapporto tra Capote e l’assassino Perry Smith e la strategia della squadra di baseball dell’Oakland Athletics in L’arte di vincere (2011).
Dave e Mark hanno un rapporto simbiotico, nato dall’assenza emotiva dei genitori, separati, che si palleggiano i figli. Dave, nonostante sia di poco più vecchio di Mark, è il porto certo che costudisce e guida la forza indubbiamente superiore del fratello. Dave compensa la minor prestanza con la tecnica e il carisma. Il rapporto appare sbilanciato già nel primo allenamento: Mark colpisce il fratello al naso facendolo sanguinare e l’altro continua compassato, con il senso di sicurezza di un leader. La prova di recitazione di Mark Ruffalo è notevole soprattutto nel riuscire a restituire senza contraddizioni il grande amore fraterno, la potenza fisica e psicologica, contrapposta alla pacatezza dei gesti e dei discorsi.
Mark è fedele, sottomesso, consapevole di essere un gregario e cova una rabbia stupita di fronte al mancato riconoscimento del suo valore. Dopo aver sostituito Dave davanti a una platea di ragazzini annoiati, tenta di spiegare alla segretaria della scuola, che liquida la sua lezione con venti dollari, di essere un campione alla stessa altezza e quella lo ascolta tediata. È disperatamente in cerca di affermazione; così quando du Pont, di cui non sa nulla, lo invita nella tenuta di famiglia, gli basta la promessa di un volo in prima classe per accettare. Il magnate vorrebbe entrambi i fratelli a guidare la squadra statunitense da allenare nella sua proprietà e sotto la sua supervisione, per vincere alle Olimpiadi di Seul nel 1988. Imbonisce Mark di ideali di patria, fatica, onore e quello concepisce il lauto stipendio, insieme al rifiuto di Dave di unirsi all’impresa, come l’occasione per emanciparsi dal giogo del fratello. Ma è solo un passaggio di testimone: finisce sotto l’ala di du Pont, che lo domina in una relazione forse anche erotica, anche se il regista sfuma la questione. Il desiderio di rivalsa è la vera matrice comune dei due. Per questi delicatissimi ruoli, Miller ha scelto attori nuovi alle parti tragiche, liberandoli dalle maschere in cui erano compressi e sorprendendo il pubblico. Per du Pont ha voluto Carell, trasfigurando il suo profilo di comico in quello patologico di un individuo solitario, deprivato dell’amore della madre Jean (Vanessa Redgrave), debilitato dall’idea di poter ottenere affetto e rispettabilità solo attraverso il denaro. Channing Tatum per calarsi in Mark si è spogliato dell’icona di ragazzo copertina dei Jump street per assumere movenze gorillesche e sguardi ottusi, in cui riesce a restituire comunque la cifra di un individuo in cerca di un padre o di un mentore, che tenga le briglie al suo senso di frustrazione e di abbandono, soprattutto dopo che il fratello ha preso moglie e ha avuto due figli.L’anima malata di John du Pont si rivela a scatti: entra in palestra con un’arma in mano, cerca di allontanare Mark dal fratello, lo induce a fare uso di alcol e droga per poi esautorarlo dal ruolo di coach, facendo subentrare Dave. Gli infligge la stessa umiliazione cui lo condanna la madre Joan, che disprezza ogni occupazione in cui il figlio cerca di distinguersi, dalla lotta alla filatelia all’ornitologia, preferendogli i cavalli. Miller non ricorre mai alla spettacolarizzazione, nemmeno nelle scene di lotta, sempre trattenute, implose. I fatti parlano da soli. Così anche gli ambienti sono freddi, come lo è l’isolamento di John e Mark: la palestra dove du Pont si esprime in corsette ridicole, il parco meraviglioso ma asettico, gli arredamenti della grande villa che si intuiscono costosi ma privi di personalità.Bennett Miller racconta una storia degli anni Ottanta, con l’effetto visivo retrò di No – I giorni dell’arcobaleno, ma sembra suggerire che l’America buia, di disperazione carveriana non è lontana da quella di oggi.
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