Čechov in Anatolia: «Il regno d’inverno» di Ceylan è un capolavoro di regia scrittura e recitazione

Autoinganno è una parola ricorrente ne Il regno d’inverno di Nuri Bilge Ceylan, immersione profonda, a muscoli tesi, in una scrittura calibrata a tal punto da far riaffiorare lo spettatore senza debito d’ossigeno alla fine delle tre ore ampie di proiezione. Dell’autoinganno sono vittime i personaggi principali della pellicola: Aydin (Haluk Bilginer), proprietario di un albergo in Cappadocia, ex attore, scrittore, fustigatore dei costumi turchi sulle colonne di un giornale locale; Nihal (Melisa Sözen), bella e giovane moglie di Aydin, dedita a opere di carità; Necla (Demet Akbag), sorella di Aydin, ancora convalescente per un divorzio mal digerito. Aydin, Nihal e Necla si aggirano nella luce calda e aranciata dell’hotel «Otello», scavato nella roccia, contorcendosi sui propri dilemmi. Un incidente, un sasso lanciato da un bambino contro il vetro dell’auto di Aydin, li trascina tutti nell’arena della realtà, costringendoli al confronto tra di loro e col proprio ego, che ciascuno crede migliore di quello che è.

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Affiorano allora frustrazioni, livori, gelosie, astutamente imbellettate da parole altisonanti come «coscienza», in una partita a scacchi di dialoghi affilati, contrapposta al respiro ampio e rasserenante del circostante paesaggio lunare. L’abitato è ripreso nella sua selvaggia ancestralità (grazie anche alla maestria del direttore della fotografia di sempre, Gökhan Tiryaki) in campi lunghissimi che riducono gli uomini a piccoli animali inghiottiti e domati dai suoi buchi. Inquadrature generose rivelano la terra ricoperta dalla “silenziosa” neve di Pamuk, come già in C’era una volta in Anatolia (2011), in cui le auto si inerpicavano su serpentine rastremate in lande sospese nel nulla. Ma qui Ceylan si distanzia dall’opera precedente e da Le tre scimmie (2003); abbandona il territorio del poliziesco anomalo – in cui il fatto di cronaca è un pretesto per un’analisi dei comportamenti umani – e torna alla vivisezione del sentimento di Il piacere e l’amore (2007), forse con maggior disincanto e capacità chirurgica. Alla perfezione della scrittura – firmata dal regista stesso e dalla moglie Ebru – si aggiunge l’eccezionale capacità attoriale e l’abilità registica di Ceylan, giustamente coronata con una Palma d’oro allo scorso festival di Cannes, del cui palmares il regista turco è ormai un habitué.
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Le contraddizioni, che affliggono i protagonisti e il Paese stesso, vengono in rilievo sin dalle prime scene. Lacerti nebbiosi avvolgono le cuspidi di tufo e le gambe di Aydin, fermo sull’erba. Una cartolina di altri tempi in cui sembra strano non percepire l’odore di umido sollevarsi dai tappeti all’esterno. Poi la macchina da presa si trasferisce nella contemporaneità, all’interno dell’hotel, dove si aggirano turisti asiatici e un ospite consulta un tablet. Quando quest’ultimo fa notare ad Aydin che sul sito dell’”Otello” compaiono foto di cavalli che l’albergo non possiede, Haydin rimane stupito nell’essere messo di fronte a una della sue tante incoerenze. Al pari dell’irritazione che scarica contro Fatma (Rabia Özel), la domestica vestita in abiti tradizionali, quando non trova a sua disposizione la moglie e la sorella. Lui che si considera moderno e progressista, lui che tuona nei suoi editoriali contro l’arretratezza del Paese, ma permette che il bambino che ha rotto il vetro della sua auto venga costretto a baciargli la mano. Lui che vuole finanziare un’opera di bene solo perché a chiederglielo è una sedicente ammiratrice dei suoi articoli, ma è intransigente con la famiglia del bambino, affittuaria morosa, braccata dalla povertà.
Si trincera nel suo studio, Aydin, mentre alle spalle, sul divano, la sorella Necla gli rosicchia la concentrazione che va cercando per iniziare l’opera della sua vita, Storia del teatro turco.. Necla lo avvolge nelle spirali viperine della sua «anima ottenebrata da questo posto letargico». Riversa livore su di lui e sulla cognata quando manifestano sconcerto riguardo alla sua teoria di «non opporre la resistenza al male», una versione laica del porgere l’altra guancia. Ma poi è tentata di decurtare alla cameriera lo stipendio perché ha rovinato alcuni bicchieri di pregio. La stessa Nihal si dibatte nella sua torre eburnea, sprezzante nei confronti del marito nella sua purezza di anima pia, senza però rinunciare alla vita agiata che questo le garantisce.
Ognuno agisce come un fantasma avulso dall’arretratezza e dalle difficoltà di chi lo circonda, arroccandosi nei propri privilegi, soddisfatti dalla servitù, e in primis dal tuttofare Hidayet (Ayberk Pekcan), risoluto a seguire il “padrone” in ogni sua bizzarria, come un male incomprensibile e necessario. Ognuno con la chimera di trasferirsi a Istanbul, come le tre sorelle cechoviane, Olga, Irina e Masha sognavano Mosca. Ognuno, come nel Gabbiano, insegue un quid che dia significato alla propria esistenza, mentre sullo sfondo aleggia lo spettro di Ingmar Bergman, maestro del dubbio, del tormento interiore, del confronto di coppia; e in controluce baluginano i dialoghi raffinati e complicati dell’iraniano Asghar Farhadi in Una separazione (2011) e Il passato (2013).