“C’era ancora a quel tempo la fierezza di appartenere a un’azienda, a un gruppo, a un popolo, a un’entità umana che produce una trasformazione storica”. È la voce di Ermanno Olmi, pioniere del documentario industriale, che chiosa uno spezzone di Un metro lungo cinque (1961), uno dei cortometraggi realizzati per Edison agli albori della sua carriera e che Davide Ferrario incastona nel complesso, urticante, poetico La zuppa del Demonio, documentario che verrà proiettato il 2 settembre “Fuori concorso” alla 71esima edizione della Mostra del cinema di Venezia (dal 27 agosto al 6 settembre),che il Sole 24 Ore ha visto in anteprima e che sarà in sala l’11 settembre distribuito da Microcinema.
Il commento e le immagini di Olmi condensano il messaggio che La zuppa del demonio prodotto da Rossofuoco con Rai Cinema – vuole trasmettere: l’ambigua, contraddittoria e necessaria corsa italiana al progresso dal ventennio fascista fino a oltre il boom degli anni Sessanta. Olmi riprende i ragazzi del Sud che si inerpicano nei paesaggi nordici con la valigia di cartone per costruire una diga: i volti speranzosi nel momento dell’assunzione, bagnati di tristezza nella solitudine serale; l’incomunicabilità dei dialetti, superata dalla fede cieca di formiche faticatrici in cambio di uno stipendio e di un progetto comune di cui non comprendono le dimensioni. Alla montagna sventrata per fornire energia seguirà la campagna avvelenata dall’inquinamento in cui scompaiono le lucciole pasoliniane. Ferrario illustra questa antinomia – progresso/distruzione, benessere/ profanazione – utilizzando il found footage con la maestria dimostrata in passato – American Supermarket (serie televisiva del 1992), La strada di Levi (2006), Piazza Garibaldi(2011), montando cioè il materiale dell’Archivio Nazionale del cinema di impresa di Ivrea, che raccoglie cento anni di documentari industriali. Ferrario incappa in questi reperti eccezionali grazie al direttore dell’Archivio, Sergio Toffetti. Il regista temporeggia fino a che viene conquistato dal progetto di una sceneggiatura, scritta a quattro mani con Giorgio Mastrorocco, non a tesi, come potrebbe indurre il titolo, La zuppa del demonio, con cui Dino Buzzati descrive le lavorazioni nell’altoforno. L’obiettivo di Ferrario è piuttosto di “restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spencolata verso il futuro”, per dirla con Ottiero Ottieri, del processo di industrializzazione italiana. Il documentario inizia con le immagini delle ruspe che spianano gli olivi centenari per far posto al Tubificio di Taranto, l’odierna Ilva. “Gli olivi, il sole e le cicale significavano sonno, abbandono, rassegnazione e miseria – enfatizza la voce fuori campo del film -. Equi l’uomo ha costruito una cattedrale di metallo e vetro per scatenarvi dentro il mostro infuocato, che si chiama acciaio e che significa vita… “.Oggi trasaliamo nell’assistere alla violazione di un paesaggio intatto dall’epoca della Magna Grecia, ma allora significava la possibilità di uno stipendio, di una casa, diritto allo studio per le generazioni future. E poi, come spiega Giorgio Bocca nel film, “tutte le cose che adesso ci appaiono orrende, allora ci sembravano bellissime”. Un contrasto che vive ancora all’ombra dell’Ilva: scegliere tra lavoro e salute. Ferrario dalla fornace pugliese scivola all’inizio del Secolo Breve: “Il Progresso ha sempre ragione”, avverte Filippo Tommaso Marinetti, mentre macchine da corsa filano indiavolate nell’autodromo, centraliniste cinetiche aggrovigliano fili senza mai ingarbugliare leconversazioni,un’operaia sovietica impacchetta sigarette con una velocità prodigiosa e Vladimir Majakovskij sussurra: “Dopo l’elettricità non potrò mai interessarmi alla Natura. Così imperfetta”. Il Duce mette in moto due generatrici in piazza Duomo a Milano, sfrigolante di insegne, e Carlo Emilio Gadda sobilla: “A ogni minuto che passa le moltitudini dai mille sensi e dai mille appetiti gridano lungo i meridiani della terra: vogliamo il prodotto!”. Sembra un commento alla globalizzazione odierna, che fa il paio con Italo Calvino: “L’opulenza si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per fare posto alle nuove”. Mussolini inaugura lo stabilimento di Mirafiori, dove si forgiano i caccia, e l’invito di Dino Buzzati rimane inascoltato: “Gettate via fucili e cannoni, tornate quelli che eravate prima”. Ma come prima non si può tornare. Le antenne della televisione sono in fibrillazione, Giorgio Bocca guarda ammirato le stelle della Fiat “rosse come quelle del Cremlino”. A Ivrea Adriano Olivetti trasforma in realtà l’utopia di un’industria illuminata, in cui i dipendenti lavorano cullati dalle note di Rossini, e Milano diventa frenetico cuore pulsante dell’Italia, anche se Luciano Bianciardi mette in guardia: “Qui c’è un vantaggio. Ti danno un lavoro e ti pagano. Per il resto non è una città, non è un paese, non è niente. È solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata “. Un galoppo impazzito fino alla scoperta del petrolio e alla crisi, agli allarmi ambientalisti, che si svegliano quando le carcasse delle auto giacciono già a centinaia nel Tirreno. Ma c’è chi difende la fabbrica, come Ermanno Rea: “Noi amavamo Bagnoli perché introduceva… nella Napoli… dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando… valori inusuali: la solidarietà, l’orgoglio di chi si guadagna la vita…; l’etica del lavoro, il senso della legalità “. Un orgoglio “di produttori” – come spiega il direttore dell’Archivio – simile a quello che si legge nei volti all’uscita dei cancelli della fabbrica in La sortie des usines Lumières (1895) a Lione, dei fratelli Lumières. Un’immagine che Ferrario ha voluto inserire nella sua opera: cinema e industria, intrecciati nella loro non pacificata storia, come racconta questa intensa Zuppa.