Faccia a faccia con l’omicida di un fratello mai conosciuto. Dopo lo scioccante The act of killing (2012), Joshua Oppenheimer torna a parlare del massacro in Indonesia in cui nel 1965 morirono oltre un milione di persone appartenenti a minoranze etniche, oppositori politici e comunisti. E porta in concorso il 28 agosto alla 71esima Mostra del cinema di Venezia The look of silence (uscirà nelle sale per “I Wonder Pictures”, che aveva distribuito anche The act of killing), l’altra faccia, non meno sconvolgente, del genocidio messo in atto, dopo il colpo di Stato di Suharto, dai gruppi paramilitari con la complicità e il supporto dell’esercito. Oppenheimer questa volta riprende le testimonianze di chi è scampato all’eccidio e il confronto tra il membro di una famiglia di sopravvissuti e i carnefici, che vivono impuniti, in posizioni di comando e di agio.
«Sono venuti a cercarmi gli stessi sopravvissuti – puntualizza Oppenheimer in anteprima al Sole 24 Ore – e a chiedermi di incontrare i loro aguzzini. Io ero andato nelle loro piantagioni nel 2003 per capire come potessero vivere gravati dall’ignominia dell’etichetta di “politicamente impuri”, sistematicamente soggetti a estorsioni e ridotti a un regime di apartheid economico». In particolare, Adi, nato nel 1968, non riusciva più a convivere con un’assenza pesante, quella del fratello Ramli, che non poteva piangere in pubblico. Sapeva che i carnefici, dopo aver mutilato e trucidato Ramli, vivevano nel suo stesso villaggio. «Adi voleva risalire alla fonte della sua paura – spiega il regista -. Questi incontri sono stati l’esperienza più potente e sacra della mia vita. La tensione era alle stelle. Il culmine, quando Adi ha chiesto al governatore della regione come poteva continuare a fare politica circondato da centinaia di migliaia di famigliari delle vittime. “Volete che ricominciamo?”, minacciava quello. “Vi consiglierei di smettere di scavare nel passato”. Tuttavia non siamo mai arrivati alla violenza, soprattutto grazie all’empatia e al grande autocontrollo di Adi. Ma ci sono stati anche momenti di sconsolata tristezza, come quando Adi ha capito che suo zio era coinvolto nell’eccidio: abbiamo visto in un baleno una relazione di affetto sincero corrompersi nel silenzio e bagnarsi di vergogna. O quando Adi ha incontrato la figlia di un killer, che apprendeva per la prima volta i dettagli orripilanti del comportamento del padre».
Oppenheimer era arrivato in Indonesia nel 2001 per filmare, su commissione dell’«International Union of Food and agricultural workers», un report in una piantagione di olio di palma, gestita da una compagnia belga, incentrato sulla battaglia delle lavoratrici per organizzare un sindacato. «Le donne erano costrette a spruzzare erbicidi senza protezioni, la maggior parte moriva di malattie epatiche prima dei quarant’anni».
Da quell’esperienza nasce The globalisation tapes (2002), l’anno successivo Oppenheimer si trasferisce nella piantagione dei sopravvissuti. «Arrivavano tremanti, sapendo di rischiare la vita, ma determinati a immortalare la propria testimonianza. Avevamo paura. Fermavamo le riprese e nascondevamo i macchinari a ogni rombo di motore. Solo i killer potevano permettersi il lusso di un’auto».
L’esercito venne immediatamente a conoscenza del progetto e minacciava di morte i testimoni. «Allora i sopravvissuti mi hanno spinto a chiedere ai torturatori di ripetere i loro crimini davanti alla macchina da presa, così almeno avrebbero saputo come erano morti i loro cari». Questa l’origine di The act of killing – presentato in anteprima al Biografilm festival – il cui protagonista, Anwar Congo, è stato scelto dopo due anni di ricerche, da piantagione a piantagione, spulciando le città, indagando lungo tutta la filiera del comando. «I killer erano entusiasti di portarmi nei luoghi dove avevano commesso i massacri, si dolevano di non aver con loro un machete per rendere più credibile la rievocazione delle imprese. Si vantavano delle tecniche delle sevizie anche davanti ai nipotini. Mi sentivo catapultato nella Germania dell’Olocausto a quarant’anni di distanza con i nazisti ancora al potere». Un materiale esplosivo, di cui due grandi maestri del documentario, Werner Herzog ed Errol Morris, capirono subito le potenzialità, producendolo.
Ma le riprese di quelle tragiche spacconate a loro volta generarono The Look of silence. «Il leader del Komando Aksi, lo squadrone della morte che aveva agito nella piantagione dove viveva la famiglia di Adi, mi invitò a seguirlo in una radura sulle rive del fiume Snake, dove si era verificata la carneficina di 10.500 persone. All’improvviso mi sono reso conto che mi stava spiegando come aveva ucciso Ramli. Adi ha voluto vedere tutto il materiale ed è rimasto tramortito. Lo ha studiato a lungo e poi ha insistito per un confronto con i killer per metterli davanti alla loro disumanità. Lo ha fatto per i suoi figli, cui a scuola veniva insegnato che i sopravvissuti avevano colpa del loro genocidio».
Oppenheimer definisce The Look of silence «una poesia su un silenzio carico di terrore». Ma è anche un capitolo di Storia che si riscrive, una denuncia che può cambiare le cose, come è avvenuto sulla scia di The act of killing. «Quando il documentario ha avuto una nomination all’Oscar, il governo indonesiano è stato finalmente costretto ad ammettere che le uccisioni erano sbagliate; i cittadini hanno potuto esprimere il proprio disgusto, dolore, rabbia; i media hanno reagito, perfino il direttore di “Tempo magazine” ha confessato di aver censurato migliaia di articoli e ha pubblicato un numero di mille pagine in cui venivano riportati gli atti di barbarie. «The act of killing è stato proiettato molte volte in Indonesia e io continuo ad andarci anche se ricevo regolarmente minacce di morte da parte dei leader paramilitari».
Tra pochi giorni l’Indonesia sarà alla ribalta a Venezia. «È un magnifico sprone perché il Paese intensifichi il suo processo di guarigione, attraverso la ricerca di verità e giustizia. Sono profondamente commosso e onorato di poterlo fare su un palcoscenico così venerabile». Un palcoscenico sicuramente ben disposto, dopo il Leone d’oro l’anno scorso a Sacro Gra di Gianfranco Rosi. «Per me il documentario è cinema in cui le persone mettono in scena se stesse, sul modello di Jean Rouch» e, tra i maestri, cita anche Francesco Rosi e Il caso Mattei (1972) e individua come stelle polari, oltre a Visconti, Rossellini e Pasolini, Federico Fellini che «come Herzog, capisce la poesia dell’abbandono estatico alla decadenza, il male, la morte, la distruzione». Poi demolisce il cinema verité statunitense: «È “fly the wall”, documentario che crea la realtà, una sciarada a mio parere molto arbitraria. Piuttosto che fingere che la macchina da presa sia una finestra trasparente su una preesistente realtà, è meglio concepire un documentario in cui le persone agiscono con un’immagine idealizzata di sé, rendono visibili le proprie fantasie, le bugie che si raccontano per giustificare le proprie azioni, le storie che recitano nella loro testa per proteggersi dal rimpianto, le finzioni a cui aggrapparsi per bloccare il dubbio strisciante. Tutti i documentari dovrebbero sforzarsi di essere documentari dell’immaginazione».
Le immagini, quindi, possono più di un’inchiesta scritta? «Se una fotografia dice più di mille parole, il cinema ne urla 24mila al secondo. Attraverso le immagini esploro idee e ambiguità che non si possono contenere in una lingua, figuriamoci in un riassunto».