L'amore estensibile di un padre: "Father and son" di Kore-eda Hirokazu indaga sulla genitorialità
Quanto conta ritrovare nei lineamenti infantili la prosecuzione dei propri? Più che la storia paradossale, ma purtroppo spesso reale, dello scambio in culla, Father and son di Kore-eda Hirokazu pone al centro del film domande capitali sulla genitorialità, ispessita dai mali del nostro tempo. L’immaturità verso gli affetti, l’egoriferimento e la realizzazione professionale come autoassoluzione dalle responsabilità parentali. Devianze odierne che affiggono le nuove generazioni occidentali, quanto quelle passate erano abitate spesso da eccessivo rigore e algidità, forse scottate dai conflitti mondiali, come svelava l’estremo e dilaniante Il nastro Bianco (2009) di Michael Haneke.
Father and son racconta la storia di due famiglie giapponesi, una abbiente, i Nonomiya, e l’altra ai limiti del disagio, i Saiki, che scoprono dopo cinque anni uno scambio in culla nell’ospedale dove sono nati i loro bambini. I Nonomiya hanno un solo figlio, Keita (Keita Ninomiya), che viene allevato sotto gli inflessibili dettami del padre, Ryota (la star Masaharu Fukuyama), in piena carriera. Architetto di grido, pretende dal figlio la stessa abilità nel riuscire in tutte le discipline. Il piccolo si piega alle sue aspettative con la dedizione di un esserino che ama con tutte le sue forze nei limiti del suo metro di altezza. Così Keita mente pur di passare le selezioni di una scuola prestigiosa, scelta da Ryota, e sottopone le piccole dita a estenuanti esercizi quotidiani al piano, sotto l’amarezza silente della madre Midori (Machiko Ono).
Caciaroni, litigiosi, scherzosi sono invece i Saiki: il padre, Yudai (Lily Franky), gestisce un negozio di materiale elettrico quasi in dormiveglia. La sua attività più importante è quella di divertirsi con i tre figli, di cui il maggiore, Ryusei (Shôgen Hwang), non assomiglia a nessuno dei due. «I vicini sospettavano che avessi tradito Yudai», commenta laconica la mamma di Ryusei, Yukari (Yôko Maki), quando apprende i fatti.
La verità si infila come un veleno nella vita quotidiana. Midori comincia a ragionare sulla sua condizione di madre e donna, costretta a rosicchiare le briciole del tempo del marito. Si lacera sotto l’accusa di Ryota: «Come hai fatto a non rendertene conto? Sei una madre!», e comincia a ribellarsi alla frase, «Ora si spiega tutto», con cui il marito liquida la mancanza di talento in Keita. Ryota diventa ancora più granitico nel suo perfezionismo, disperandosi quando il datore di lavoro ridimensiona la sua posizione, suggerendogli di passare più tempo a casa per affrontare la gravità del momento. Le fratture si ampliano negli incontri tra le due famiglie, così diverse per educazione e censo, e nello scambio dei bambini, suggerito dai legali dell’ospedale. Keita si abitua al calore indolente dei Saiki, alla baruffe e ai continui rimproveri, alla fine benevoli, di Yukari verso Yudai per la sua condotta affettuosa, ma trasandata, senza possibilità di riscatto economico. Ryusei invece conta le ore per tornare nella sua casa d’origine e contesta la nuova vita elegante e asettica, piena di "dover essere", cui oppone caparbi «perché?», che non ottengono risposta nemmeno dalla nuova madre, avvolta in una malinconia gentile. La trama sembrerebbe ricalcare un facile cliché: i ricchi senza sentimento, gli straccioni pieni di buon cuore, ma il regista giapponese – che già in Nessuno sa (2004) affrontava il tema dell’assenza genitoriale -, raffina la storia attraverso la crescente ribellione di Midori e facendo emergere certa avidità naïf dei Saiki, il cui pensiero va troppo spesso al risarcimento. Kore-eda Hirokazu guarda i suoi personaggi a distanza, ma tiene sempre tesa in sottofondo la domanda: «È più importante il sangue o il tempo che si passa insieme?». Padre David Maria Turoldo non nascondeva di privilegiare il tempo: lo spiegava quando parlava delle balie, che allevavano quanto e più di chi procrea, e nell’esaltare l’amicizia, come nella poesia Il ricordo di un amico. Il feroce Il ritorno di Andrej Zvjagintsev, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2003, faceva invece emergere il potere di una figura paterna che riaffiora dal nulla scatenando nei figli reazioni opposte, la deferenza nel più piccolo e la ribellione nel più maturo. L’omonimo Padre e figlio di Aleksandr Sokurov (2003), sul rapporto claustrofobico tra un cadetto e il padre vedovo, indaga con più profondità i non detti e la competizione padre-figlio del film di Kore-eda Hirokazu.
Father and son è meno riuscito di Il figlio dell'altra di Lorrain Lévy, nonostante la pellicola unisca alla situazione tragica il fardello del conflitto israelo-palestinese. A volte il regista giapponese cade in piccole furbizie che cedono al melodramma: «Per sempre insieme», dice Keita unendo la sua mano a quella di Ryota e Midori poco prima che la situazione precipiti. Forse il premio della Giuria, ricevuto all’ultimo festival di Cannes, è troppo, nonostante la pellicola abbia dei pregi. Soprattutto nell’ultima parte, quando lascia che siano le immagini a rivelare la doppiezza sentimentale di tutti, anche solo grazie al musetto sofferente e intenso di Keita. E nella capacità di rovistare dall’inizio alla fine nella coscienza dello spettatore.