Flaccidi, sovrappeso, toracicamente insufficienti, eppure eccoli in divisa contro "il decreto Nerone", che condannava le migliaia di opere d'arte razziate da Adolf Hitler a non sopravvivergli.
George Clooney, che ha sbagliato poco nella sua carriera di attore (anche nelle parti lievi), regista, produttore (conquistò l'Oscar con Argo nel 2013), è piombato su una vicenda cinematograficamente molto attraente, Monuments men (sugli schermi da giovedì prossimo). E' la storia vera (Sperling&Kupfer, euro 16,90) di un manipolo di direttori e curatori di museo, artisti, architetti infilatisi nell'Europa incendiata dal nazismo per cercare di recuperare e restituire sei milioni di pezzi, tra cui capolavori di grandi maestri, frodati a chiese, musei e privati, molti dei quali ebrei, come la famiglia Rothschild. Con l'approvazione del presidente Roosevelt, rafforzata dal maldestro bombardamento degli alleati di L'ultima cena di Leonardo da Vinci nel 1943.
Ad anticipare quasi le immagini sono le martellate con cui i tedeschi suggellano le casse in cui viene riposto il polittico quattrocentesco dell'Agnello Mistico di Jan van Eyck, di cui era stata privata la cattedrale di San Bavone a Gand e oggi al suo posto grazie all'architetto Robert Posey (nel film Bill Murray) che lo scovò nella miniera di sale di Altaussee assieme alla Madonna di Bruges di Michelangelo e L'astronomo di Vermeer. Sarebbero tutti finiti nel Führermuseum di Linz di cui Hitler accarezzava il modellino con il rinfrescante senso di rivincita dell'allievo rifiutato dall'accademia delle arti.
Tutti in cerca dei Rodin, dei Raffaello, dei Renoir, capitanati dallo stesso Clooney nei panni di Frank Stokes, figura ispirata a George Stout, lo storico dell'arte, leader dei Monuments. Accanto a lui Matt Damon è James Granger, nella realtà James Rorimer, futuro direttore del Metropolitan museum di New York, legato a Rose Valland, curatrice della galleria Jeu de Paume di Parigi, che grazie al doppiogioco con i nazisti era riuscita a stilare un catalogo delle opere rubate, che permise le restituzioni. Nel film Valland è Claire Simone, raffinatissima Cate Blanchett. Il più giovane e meno consapevole della missione era il 18enne ebreo Sam Epstein, Harry Ettlinger nella realtà, che è ancora in grado di raccontare quando riconobbe l'autoritratto di Rembrandt, rapinato dal museo di Karlsruhe. Per ironia della sorte proprio da quella città Ettlinger era scappato non molti anni prima con la sua famiglia verso l'America per sfuggire alle leggi razziali.
L'intento dichiarato di Clooney in questa sua ultima fatica era di abbandonare il cinismo e la disillusione, fondo amaro con cui aveva firmato le sue belle pellicole precedenti, che mettevano a nudo le interiora della politica e dei media americani, da Le idi di marzo (2011), a Good night, and good luck (2005) a Confessioni di una mente pericolosa (2003). Sicuramente c'è riuscito con un polpettone gigionesco, che rispolvera perfino il patriottismo americano in chiave antisovietica, ma che vanta una storia eccezionale e i tempi giusti della commedia e della commozione, grazie anche all’eccellente cast. Basta la mimica facciale di John Goodman e il fisico antieroico di Bob Balaban ripresi durante la vestizione delle divise, o durante il trionfo del generale Eisenhower, mentre si accaparra il merito della scoperta, fatta dai Monuments, della giacimento aurifero. Non mancano i momenti di commozione, quando Clooney si accomiata dal figlio o nella commemorazione dei Monuments caduti, interpretati dal premio Oscar Jean Dujardin e Hugh Bonneville. Al netto di tutto, due orette di Storia, Arte e buona morale che passano con piacevolezza.