Esce il 9 gennaio il nuovo film di Paolo Virzì, "Il capitale umano", tratto dall'omonimo romanzo di Stephen Amidon. L'intervista con il regista, pubblicata oggi su "Domenica"
Prendi la profonda provincia americana, della competizione sfrenata, inculcata quando l’anima è ancora imberbe, dei divari sociali vertiginosi, del dio dollaro che nobilita e inginocchia, e sbattila nella Brianza ispida dell’imprenditûr coi danè. Una virata sociogeografica che ha travolto positivamente Stephen Amidon, fresco di visione di Il capitale umano di Paolo Virzì, nelle sale dal prossimo 9 gennaio, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo dello scrittore americano (Mondadori, 2005, come gli altri titoli tradotti in Italia).
«È un film commovente. È stata una delle gioie più grandi della mia vita. Ho amato ogni sequenza. Paolo è riuscito a essere fedele al libro, trasformandolo nello stesso tempo in un’opera sua. Mi hanno emozionato le performance degli attori», e Amidon cita Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi, la fragile Carrie del libro) per omaggiare tutto il cast, composto da Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola, trasfigurazione del protagonista perdente, Drew Hagel), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi, versione nostrana del finanziere Quint Manning), Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti, solo per citarne alcuni . «Sono riusciti a veicolare una storia ambientata in America in un racconto italiano senza snaturarla », continua Amidon, alludendo alla sceneggiatura, scritta dallo stesso Virzì, assieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Un lavoro che scorpora il testo originale riavvolgendolo attorno a un nodo: l’investimento di un uomo in bicicletta in una notte d’inverno da parte di un automobilista pirata. Virzì sceglie di raccontare lo stesso incidente, attraverso punti di vista diversi, da cui balugina sotto varie luci il decadimento economico, sociale e istituzionale del nostro Paese. «Credo che l'era di Berlusconi e la crisi finanziaria attuale, rappresentata da Virzì, sia molto simile a quella vissuta dal mio Paese sotto la presidenza di Bush. Una cultura dominata dalla corruzione e dallo spreco, che ha portato gli Stati Uniti all'insensata guerra contro l'Iraq. Viviamo nel tempo della distrazione, dell'avidità, del capitale, del materialismo, negletti dall’amore, che accomuna il ricco e il povero, il vincente e il fallito». Un’America, che Amidon, considerato l’erede spirituale di John Cheever, ama e odia, che fustiga e stana nelle sue devianze con il rancore speranzoso di un figlio ferito, come Tom Wolfe e Don DeLillo, cui spesso viene accostato. «Gli Stati Uniti sono Martin Scorsese, Marlon Brando, Ernest Hemingway, la Cia, il razzismo, gli assassini oscuri e violenti. Ma sono il mio Paese». E lui lo racconta dall’osservatorio della provincia, negli stessi quartieri in cui bazzicava l’estro di John Updike; tra le strade inamidate di La città nuova (2006), un guscio cerato, impenetrabile alla Storia: gli orrori del Vietnam e lo scandalo del Watergate; tra le mura videosorvegliate di Security (2009), dove il ricco e potente non è così candido e il sordido ubriacone non è sempre colpevole, secondo la lezione della dualità esteriorità-interiorità imparata dal maestro Cheever. «È nei sobborghi che fiuto il pericolo e la corruzione, che Scorsese e Wolfe scovano nelle metropoli». E da investigatore del sociale, Amidon ha scelto di vivere nel Massachusets, assieme alla moglie fotografa, e alle figlie gemelle liceali quindicenni, Aurora e Celeste (i twins incombono anche in Il capitale umano e in Splitting the atoms, 1990), e dove sono cresciuti anche i figli maggiori della coppia, Clementine, di 25 anni, e Alexander, ora studenti al Bard (Annandale-on-Hudson, New York) e al Boston College.
Una scelta meditata, nonostante la passione per lo stile di vita europeo, cresciuta nei dodici anni passati a Londra. «È la mia città preferita, ma io racconto l'America e non posso scriverne da espatriato». Amidon la dipinge con una vena noir, l’occhio accondiscendente verso l’universo femminile, e un fare inquieto e indagatorio nei confronti degli adolescenti, da padre qual è; l’attenzione sempre concentrata sui rapporti di emulazione, vassallaggio, disprezzo tra middle e upper class. «Le mie origini sono borghesi. Sono preoccupato per le sorti della middle class, l’anello attualmente più fragile della società, impreparato alle asperità, assottigliato dal divario sempre più accentuato tra ricchissimi e poverissimi. Un ceto che per decenni si è sentito onnipotente, accecato dal mito della prosperità e dell'eternità, della negazione della morte. Io sono stato vaccinato da mia madre, che è greca e contempla la caducità come una parte della vita». Il mito della giovinezza si sposa con l’idolatria verso lo sport, su cui Amidon ha scritto nel 2012 un saggio (non ancora tradotto), Something like the gods, «Lo sport è la nuova religione americana, la gente va alla partita alla domenica come fosse una messa. Una combinazione di violenza, soldi, gioco, sesso, che ben rivela l’indole dei miei connazionali. Un campo che conosco bene perché mio figlio Alexander è un ottimo giocatore di football e finito il college, il prossimo anno, approderà in nazionale. I Tiger Woods e i Michael Jordan sono i novelli Hemingway. Da ragazzo avevo il mito Mickey Mantle, che giocava baseball nei New York Yankees. Lo ammiravo per la disciplina e i risultati: poi è diventato un alcolista e ha subito un trapianto di fegato».
Un Paese, che annaspa dopo la perdita della leadership mondiale, «anche se culturalmente è migliorato, le casse sono in rovina dopo la guerra in Iraq e non abbiamo le risorse, l'ottimismo e la passione per riscattarci, come accadde dopo lA sconfitta in Vietnam», dal cui abominio tentava di proteggersi Newton, La Città Nuova, nell’omonimo romanzo del 2006, un ombrello che avrebbe dovuto rimbalzare il fiele del secolo. «Ero un bambino ai tempi della guerra in Vietnam – precisa Amidon, classe 1959 –. La figura del soldato è ispirata al padre di un mio compagno di classe, un reduce che non è tornato mai in sé». E Obama? «L’ho votato e continuo a stimarlo nonostante i rovesci. È una brava persona con un pessimo lavoro. Spero non fallisca, perché dopo di lui la gente vorrà al potere "uomini forti", come Donald Trump, e, da voi, Berlusconi. Mi piace la gente ricca, io scrivo dei ricchi, ma penso che debbano tenersi i loro fottuti yacht, le loro macchinone, senza governare la nazione».
Amidon inframmezza l’amarezza per le sorti della sua terra con alcune parole in Italiano che ha imparato nei sei mesi vissuti a Venezia, grazie al gemellaggio tra Ca’ Foscari e la Wake Forest University, dove si è laureato filosofia. «Può immaginare l’incanto, il senso di vertigine di un ragazzo cresciuto nel Maryland che la mattina apre le finestre sul Canal Grande».
E oggi l’Italia gioca un altro ruolo fondamentale, regalandogli la prima trasposizione sullo schermo di un suo romanzo. Una nemesi per un cinefilo incallito, a lungo critico cinematografico e letterario per il «Financial Times», «The Sunday Times» e «The literary Review» e giornalista culturale tout court. «Sono cresciuto nell'età d'oro del cinema –, si infiamma lo scrittore -. Da Taxi Driver di Scorsese, a Il padrino di Coppola. Avevo preparato le sceneggiature per due dei miei romanzi, ma il mondo del cinema può essere molto infido e sono contento di aver incontrato Paolo». Il loro sodalizio è nato grazie a una mail che un Virzì entusiasta ha inviato ad Amidon nemmeno troppo tempo fa. «Ho subito visto Caterina va in città – film del 2008
di Virzì n.d.r.- e sono rimasto colpito dalla grazia, e insieme, dal forte potere di attrazione della narrativa di Virzì, dalla complessità con cui rendeva le tematiche sociali senza rinunciare a dare profondità psicologica ai personaggi. La sua mano mi ricorda quella di Bob Rafelson, Alexander Payne e il Sam Mendes di American Beauty (1999)».