Nel regno dell’incertezza: non perdete il capolavoro di Farhadi

 

«Il passato» è un film potente e ben scritto in cui Farhadi continua
a indagare nei legami di coppia, ma stavolta con registro universale

Ecco la recensione pubblicata sul domenicale

di Cristina Battocletti
Per alcuni attimi Asghar Farhadi lascia senza paracadute lo spettatore de Il passato. Sono momenti non banali in cui lo fa regredire a uno stato infantile di attesa, per poi riacciuffarlo e condurlo sui binari delle sceneggiature ben oliate cui ci ha abituato. Accade quando il regista iraniano frappone un vetro tra la macchina da presa e i suoi personaggi, privandoli della parola, provocando nella platea una sensazione di impotenza.
Proprio all’inizio del film Ahmad (Ali Mosaffa) si trova all’interno di un aeroporto e si aggira confuso tra i nastri trasportatori cercando, si presume, il suo bagaglio. Sentiamo gli annunci dei voli, ma non capiamo come Marie (Bérénice Bejo), ammutolita da una parete divisoria trasparente, riuscirà ad attirare l’attenzione di Ahmad. Più tardi, a escludere ancora lo spettatore sarà il tergicristallo di un auto o la vetrina di una locale, superfici che permettono di assistere senza però poter ascoltare, trasformando il pubblico nel testimone di una realtà parziale. Sono metafore con cui il regista prepara alle incertezze cui ci espongono Ahmad e Marie, che un tempo furono una coppia e ora non lo sono più. La loro rottura fomenta i primi dubbi anche se Ahmad è giunto a Parigi da Teheran per firmare le carte del divorzio. Sin dal primo istante la loro condizione di sopraggiunta estraneità è smentita dal linguaggio corporale: un guizzo di emozione coglie entrambi non appena gli sguardi si incrociano e un sorriso pudico, che vorrebbe essere represso, non può fare a meno di affiorare. I colloqui deviano con facilità in collera rivelando dolori mal digeriti. Sono piccole scaramucce che preparano a sentimenti ancora più complessi di una giostra ombelicale, in cui emergono situazioni estreme, tuttavia plausibili, perché stemperate dalla crudezza della realtà, da una scrittura sincera e senza vezzi, da una macchina da presa ferma e attenta, trasformando Il passato in uno dei film più belli della stagione (è in sala da dieci giorni, non bisogna lasciarselo scappare).

 

Ahmad rientrando nella casa di Marie vi trova un bambino intenso e ombroso, Fouad (Elyes Aguis, di eccezionale bravura), che scopre essere il figlio del nuovo compagno di Marie, Samir (Tahar Rahim, l’indimenticabile Profeta di Jacques Audiard), di cui nulla sapeva. La casa è in subbuglio tra spostamenti di mobili e pareti da imbiancare: Samir e Fouad stanno per traslocarvi definitivamente per vivere assieme a Marie e alle due figlie, la piccola Lèa (Jeanne Jestin) e Lucie (Pauline Burlet), recalcitrante e ribelle verso la nuova unione. Tutto appare sospeso, in un equilibrio che si spezza continuamente in liti quotidiane, spie di malesseri più profondi. La perplessità insidia ogni angolo, alimentata da continue sorprese, figlie della condizione di incertezza per antonomasia che domina le vite di tutti i personaggi: lo stato di coma in cui si trova la moglie di Samir dopo aver tentato il suicidio.
Asghar Farhadi è noto per l’abilità a esplorare i fili reconditi delle relazioni di coppia: lo ha fatto sin dal suo esordio, quando il mondo occidentale non lo conosceva ed era considerato una promessa di cui la sua patria andava fiera. Uscito dall’Istituto del Giovane Cinema, laureatosi all’università di Teheran in regia, aveva ricevuto nel 2003 il premio speciale della Giuria al festival di Fajr, che si tiene nella capitale iraniana, per Dancing in the dust, il suo primo lungometraggio. L’opera racconta le tribolazioni di un uomo costretto a partire a caccia di serpenti nel deserto per rimborsare i debiti contratti con i genitori della moglie, da cui ha divorziato. La ribalta oltreconfine avviene nel 2006 con Fireworks wednesday in cui si sviscera una crisi coniugale attraverso gli occhi di una cameriera, ma la consacrazione internazionale arriva con l’Orso d’argento per la miglior regia alla Berlinale del 2009 con About Elly, il cui protagonista si chiama ancora Ahmad, si è appena divorziato da una donna tedesca e torna in Iran, dove gli amici gli presentano Elly. Una separazione, il titolo è già eloquente riguardo alle tematiche affrontate, supera ogni aspettativa: fa incetta di riconoscimenti, dall’Orso d’oro, al Golden Globe, all’Oscar come miglior film in lingua straniera, di cui la stampa iraniana non dà notizia. I pasdaran si accorgono che i dissidi domestici sono la testa d’ariete per denunciare al mondo le ristrettezze, l’arretratezza, il maschilismo e l’immobilità del Paese, oppresso dal totalitarismo. Senza contare l’appoggio esplicito di Farhadi al collega Jafar Panahi, indigesto al regime.
Pur rimanendo nel solco dell’esplorazione intimista, con Il passato  Farhadi però sembra voler uscire dall’Iran per restituire una storia universale, la cui complessità risente comunque della malinconia fatalista orientale, ma acquista una scrittura ancora più intransigente, debitrice di una logica occidentale, figlia dell’Illuminismo. Nella trama nulla è gratuito, ogni passo – a partire dalla valigia smarrita per finire a una macchia su un vestito – è un indizio che si rivelerà essenziale in un caleidoscopio che mostra con tempismo forme e colori appropriati. Non a caso il film è ambientato in Francia (europea è anche la coproduzione), anche se Parigi è un pretesto, la cui architettura inconfondibile è superata da una periferia anonima. Francese è la lingua dei dialoghi, fulmineamente introiettata dall’ottimo Mosaffa, sottigliezza che in Italia non si coglie per via del doppiaggioanche se non possiamo intendere questa sfumatura per la malaugurata abitudine italiana di far intervenire il doppiaggio.
Il lavoro sulle dinamiche relazionali, diabolicamente veritiero, privo di infingimenti, ricorda le trame intrecciate e piene di cassetti nascosti di Irène Némirowsky (Due, Suite francese)che non a caso è nata a est (a Kiev), ma si è riconosciuta in un’identità francese. Nella prima parte Marie (per il cui ruolo meritatamente Bérénice Bejo ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes, anche se Pauline Burlet lo avrebbe ugualmente meritato) sembra essere l’incarnazione di certo egoismo ferino (alla Jezabel, per l’appunto), di certa spregiudicatezza femminile, che disarciona la vita a colpi di legami sentimentali fino a che il fascino glielo permette: fa tornare l’ex marito per vendicarsi, può enumerare diversi partner da cui ha avuto figlie che non riesce a governare, si «appropria» di un uomo ancora sposato con una donna morente. La presenza di Ahmad, invece, sembra catalizzare le contraddizioni, facendo emergere i nodi irrisolti. Eppure la sua aria pacata e imbelle, quel suo amare a distanza tenendosi un passo indietro dalla felicità, il suo essere politically correct con il nuovo partner dell’ex moglie, nasconde dei chiaroscuri. Dietro la sua estraneità ai fatti, dietro la sua praticità risolutrice (aggiusta biciclette, lavandini, prepara da mangiare) rivela una certa vigliaccheria, un desiderio, magari subliminale, di tornare protagonista della vita della donna che sta per perdere definitivamente (avrebbe potuto firmare il divorzio per procura), ricordando a Samir il rapporto esclusivo tra lui e Marie. Non a caso la chiama con un vezzeggiativo, Marianne, solo davanti a lui e non si sottrae al ruolo di pacificatore con Lucie, che detesta Samir, parte che gli offre una condizione di superiorità rispetto al concorrente. Samir stesso, che sembra una vittima passiva del destino, cova dentro di se un legame assoluto con la moglie in coma, rendendo insicura Marie. La trama potrebbe dare l’idea di un film cerebrale, incentrato sull’incomunicabilità sentimentale all’Antonioni, o sulle prigionie da focolare bergmaniano o una rivisitazione del triangolo amoroso alla Jules e Jim. È invece un capolavoro di scrittura e di regia sull’impossibilità di valutare il passato a posteriori e sulla resistenza a tagliare con ciò che è stato. Come in Una separazione, Farhadi indica nelle donne la parte più progressista. Allora era Simin (Leila Hatami) a cercare un futuro migliore; oggi è Marie a non voler sentire da Ahmad le ragioni che lo avevano portato a partire quattro anni prima. E sopra a tutto ci sono i bambini, in primis Fouad, che guardano: un omaggio a De Sica forse e a Truffaut per ammissione esplicita del regista. <[COPYRIGHT]© RIPRODUZIONE RISERVATA