E morto Armando Trovajoli. Il ricordo di Gian Mario Maletto su "Domenica" di ieri
di Gian Mario Maletto
Molto, moltissimo la cultura italiana deve ad Armando Trovajoli, il popolare musicista spentosi, a 95 anni, qualche giorno prima di ieri, ma disponendo di non dar notizia se non a cremazione avvenuta. Ma l’omaggio rischia di non riflettere l’intera sua figura di artista se lo spezzettassimo in tutte le forme in cui egli la espresse. Figura complessa, ma sotto ogni aspetto figura grande. Diede oltre tutto, in ciascuno di quei rami, una magnifica fioritura di “cose”, alcune delle quali facilmente emergono alla mente con il suo nome. Come non sentirsi rinascere dentro, per esempio, quel Roma nun fa’ la stupida stasera che a partire dal 1962 brillò come il più felice momento del suo Rugantino, musical tanto italiano (anzi romano, per via della fedeltà dell’uomo alla sua città natale) da aspirare all’aggettivo, non agevole, di nazional-popolare.
Su tante strade Trovajoli fu davvero un “primo”. Tale fu innanzitutto, per noi italiani, nel campo del jazz, e il ricordo è così lontano da farci persuasi che la sua natura, tra tutte quelle che possedeva, fosse proprio quella del ragazzo che sentiva il richiamo irresistibile della musica afroamericana. Certo, figlio com’era di un violinista, aveva fatto i suoi bravi studi classici, indirizzandosi verso il pianoforte, ma senza dimenticare Chopin aveva piuttosto subito il fascino dei Fats Waller e poi dei Bud Powell.
Ed ecco già un primato: fu il nostro primo solista capace di farsi apprezzare in un festival mondiale del jazz, quello favoloso di Parigi che nel maggio 1949 svelò all’Europa (tra l’altro) i gruppi di Charlie Parker e Miles Davis e il loro rivoluzionario bebop. Lui si presentò con un trio che vedeva al contrabbasso nientemeno che Gorni Kramer e alla batteria Gilberto Cuppini.
A chi scrive qui Trovajoli ricordò dodici anni fa, con fierezza e nostalgia: «Il pubblico della Salle Pleyel ci riservò un’accoglienza terribile. L’Italia era mal vista, in Francia, dopo l’intervento militare e l’occupazione di nove anni prima. Appena lo speaker annunciò la nostra nazionalità, fu un inferno di urla e fischi, che continuarono per tutto il primo brano. Come secondo, allora, attaccai Body and soul, e cercai di renderlo più intimo che potessi. Suonavo pianissimo. E mi accorsi che il pubblico era ammutolito. Ascoltava. E applaudì. Ma io ero filato subito tra le quinte e mi rifiutai di uscire per quel trionfo tardivo. L’indomani un critico scrisse che avevo fatto un jazz “raffinato, con il tocco di Mozart”».
Al jazz Trovajoli avrebbe continuato a dare gioielli. Tra l’altro con quella che fu, nei tardi anni Cinquanta, un’eccezionale orchestra cui assicurò sia i migliori solisti del momento (tra cui Gianni Basso e Oscar Valdambrini) sia arrangiamenti di grandi autori (tra cui il kentonino Bill Russo). Suonò perfino in piazza San Marco a Venezia, altra primizia per un jazzista, come quella dell’orchestra con archi che la Rai gli ordinò
In una musica in cui il talento è facile da intuire per chi non accetti barriere pregiudiziali, quello del pianista ma soprattutto del caporchestra e compositore passò agilmente dal jazz al cinema. Già nel ’49 lavorò per Riso amaro di De Santis (che aveva le musiche di Goffredo Petrassi), ma via via emerse una serie di colonne sonore importanti, forse trecento, in cui stanno, per esempio, La ciociara, Ieri oggi domani e Matrimonio all’italiana di De Sica, ancor più numerosi film di Scola, e così di Monicelli, Risi, Magni…
E poi il teatro: sulla scia del Rugantino di cui s’è detto, e per la stessa sigla Garinei-Giovannini, lasciò la sua impronta di tecnica e gusto in Aggiungi un posto a tavola. Molto ancora sarebbe da ricordare: le canzoni, i premi, le onorificenze. Meglio dire soltanto, senza retorica, che senza di lui il nostro mondo dell’entertainment si è fatto più piccolo.