Con una sofferenza gentile: è nelle sale il bel film di Stephrn Frears

"Philomena" racconta la storia di una donna irlandese, che cerca il figlio, partorito a diciassette anni e venduto dalle suore a una coppia di americani

La recensione pubblicata oggi su "Domenica"

«Ma tu credi?», chiede all’inizio della loro avventura a Martin (Steve Coogan) Philomena (Judi Dench) nell’omonimo film di Stephen Frears. È la domanda che fa da spartiacque in un melò dai meccanismi perfetti, su una pagina tragica della storia irlandese, giocata sulla contrapposizione tra due personaggi antitetici.
Da una parte c’è Philomena, religiosa signora irlandese, lettrice di polpettoni rosa, rimasta candida ed entusiasta, nonostante un figlio strappatole all’età di diciassette anni dalle suore del convento di Roscrea, dove aveva trovato malaugurato rifugio. Dall’altra c’è Martin, scettico ex giornalista della BBC, in gramaglie dopo essere scaricato dal Governo Blair, dove era responsabile per la comunicazione. Una coppia bislacca, unita nell’intento di ricostruire la propria identità e di cercare il figlio di Philomena, partorito nel 1952, frutto di un’avventura che l’aveva fatta cacciare di casa, espiata con il duro lavoro nella lavanderia del convento. Philomena e Martin si incontrano grazie a Jane (Anna Maxwell Martin), figlia che la donna ha potuto allevare in una seconda vita, cui dopo cinquant’anni dal primo parto confessa la sua "vergogna".

 

Liberamente tratto dal libro The lost child of Philomena Lee di Martin Sixsmith (in Italia edito da Piemme col titolo del film, pagg. 460, € 17,50), Philomena racconta la vicenda di una delle migliaia di madri adolescenti, cui nel Dopoguerra vennero strappati i figli per darli in adozione a famiglie benestanti americane, tra cui quella dell'attrice Jane Russel, dietro lauto compenso. Anthony, il figlio di Philomena, ebbe questa sorte. Diventato Michael, consigliere legale per il partito repubblicano ai tempi di Reagan e Bush Senior, mai dimenticò le sue origini irlandesi.
Una storia che si svela a tappe, di cui Philomena e Martin sono gli investigatori, raccontata con il cinismo più o meno sotterraneo che attraversa il cinema di Frears a partire da My beautiful Laundrette (1985), ma alleggerito da una vena sentimentale e a tratti umoristica, che punteggia la sceneggiatura dello stesso Coogan (anche produttore) e Jeff Pope e che è valsa loro un premio alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia. Una scrittura valorizzata dalla bravura di Judi Dench – con cui Frears aveva già lavorato per una telefilm per la BBC Going Gently del 1981 e sul set di Lady Henderson presenta (2006)- e da certo macchiettismo calibrato di Coogan – noto per aver creato il personaggio comico di Alan Partridge, amatissimo in Inghilterra -, che strizza l’occhio a Billy Wilder e Jack Lemmon.
Dench, che ha alle spalle una lunga carriera teatrale scespiriana e un premio Oscar per l'interpretazione della Regina Elisabetta in Shakespeare in Love (1998) di John Madden, scivola come un guanto nella figuretta incolta e naïve, che non smette di ringraziare per la gentilezza il personale di un hotel a quattro stelle e si entusiasma per il cioccolatino sul letto e l’accappatoio in bagno, che capisce al volo che il figlio era gay perché in una foto indossava una salopette.
Ma non è certo frutto di poco acume l’atteggiamento indulgente e di perdono di Philomena verso le suore, che hanno bruciato la sua maternità nata maldestramente, che hanno occultato i documenti di adozione impedendo che madre e figlio si incontrassero nuovamente, come era intenzione di entrambi. La fede incrollabile di Philomena fa parte di una scelta sofferta e consapevole, che spesso cozza contro il livore dell’ateo Martin.
In un primo tempo la macchina da presa di Frears – che non ha avuto alcuna educazione religiosa e proprio come Paul Auster ha scoperto attorno agli otto anni di essere ebreo -, sembra accordarsi soprattutto col giudizio sferzante di Martin verso il cattolicesimo, grazie alle inquadrature impietose sulle bocche contratte, gli occhi intransigenti delle consorelle nodose; sui fumi infernali che salgono lavanderia del convento; sulle sbarre da cui Philomena vede allontanarsi per sempre il suo bambino. Tuttavia, e lo si capirà soprattutto nel finale, l’intento del regista è quello di raccontare una storia e lo fa magistralmente, senza rinunciare al carotaggio sociologico e sociale che ha caratterizzato molte sue pellicole precedenti, dal rapporto servo-padrone di My beautiful laundrette ai problemi della working class irlandese di The snapper (1993) e Due sulla strada(1996), all’isteria collettiva per la morte della principissa Diana e la solitudine privilegiata e marmorea della Regina Elisabetta in The queen (2006).
Non ha la crudezza di altre opere legate alle maternità negate dal disagio e dalla riprovazione sociale come Magdalene (2002) di Peter Mullan, Il segreto di Vera Drake (2004) o Segreti e bugie di Mike Leigh o di L'Enfant – Una storia d'amore (2005) di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Ma un certo realismo, imparato dalla televisione in cui ha tanto lavorato, rimane e soprattutto una grazia e una gentilezza rare un terreno tanto scabroso.
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