Conla solita vocetta malferma e sarcastica Woody Allen nel finale di Io e Annie (1977) raccontava una barzelletta: «Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina. Perché non lo interna? E poi le uova chi le fa?». E alla fine chiosava: «Credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo donna, cioè che sono assolutamente irrazionali e pazzi e assurdi, ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».
Nei suoi rivoli sornioni, sicuramente psicanalitici, a volte messalinici, spesso criminosi l’amore non manca (quasi) mai nei film di Allen. In Magic in the moonlight – presentato al Torino Film Festival e nelle sale dal 4 dicembre – torna a unirsi ad alcune ossessioni con cui gli piace giocare sui set: la magia e il desiderio di abbandonarsi a essa per sopravvivere. Indovini, spiriti, guaritori, maghi si sono arrampicati con successo nella sua filmografia. Woody stesso è stato Il Grande Splendini in Scoop (2006), improvvisato detective, imbeccato da una rivelazione dall’aldilà. Aveva poi fatto sparire la nefasta madre chiacchierona del protagonista in un episodio di New york stories (1989) durante uno spettacolo di magia; con un infuso di erbe cinesi aveva fatto acquistare poteri soprannaturali all’eroina di Alice (1990) e aveva ribaltato la vita a un povero investigatore ritrovatosi ladro e innamorato della sua peggior nemica dopo essere caduto in trance in La maledizione dello scorpione di Giada (2001). In Magic in the moonlight l’incontro a doppio binario, magia e spiritismo, è tra il raffinato prestigiatore orientaleggiante Stanley Crawford (Colin Firth), in arte Wei Ling Soo, e la medium Sophie Baker (Emma Stone). Crowford, spinto dall’amico di infanzia Howard Burkan (Simon McBurney) rimanda le sue vacanze in Patagonia per smascherare i presunti poteri della graziosa e giovane Sophie, che esercita sulla facoltosa famiglia americana Catledge, residente in Costa Azzurra, inchiodandola a catene spiritiche, tra candele che volano e bussate di cari estinti. Sophie allieta Grace (Jacki Weaver), la vecchia signora Catledge, in conversazioni con il fantasma del marito, che a suon di battere colpi le conferma la propria fedeltà coniugale, almeno in vita. Ma più di tutto Sophie è vicina ad assicurarsi un avvenire di yacht e gite nei mari del Sud come sposa di Brice Catledge (Hamish Linklater), figlio di Grace. Crawford non si lascia indebolire dall’avvenenza della ragazza e la incalza ferino. «Le mie sensazioni sono nebulose», esordisce Sophie quando Stanley si presenta sotto le mentite spoglie di un uomo d’affari, Stanley Taplinger. E lui risponde scettico in perfetto stile alleniano: «Sono cirri o cumulonembi?».
Allen racconta di essersi ispirato per la figura di Crawford a Harry Houdini, il più grande illusionista degli anni Venti, famoso sbugiardatore di chiaroveggenze ciarlatanesce, ma nel cui fondo albergava sempre la speranza che qualcuno lo sorprendesse dimostrandogli l’esistenza di un aldilà. Ed è proprio nell’epoca di Houdini che Allen ambienta Magic in the moonlight. Un periodo storico, quello degli inizi del Novecento che il regista di Match point ama particolarmente, dalla Bella Époque di Midnight in Paris (2011)
alla Mittel Europa degli anni 20 di Ombre e nebbia (1991) alla Grande Depressione di La rosa purpurea del Cairo (1985), al proibizionismo di Pallottole su Broadway (1994) fino al jazz anni Trenta di Django Reinhardt in Accordi e Disaccordi.
In Magic in the moonlight ci sono tutti gli elementi per una buona commedia. C’è il gonzo, Brice, che si esercita con l’ukulele per le serenate, c’è la credulona, Grace, c’è il traditore, Howard, il superbo, Stanley e la bella, povera, incolta, ma intelligente e ambiziosa, Sophie. Ma soprattutto c’è l’eccezionale performance dei due attori. Firth, credibile nei panni dello scettico, bisbetico, corrosivo, altezzoso, presuntuoso, ma infine fragile e umano. E Stone, seducente creatura ingenua, svenevole e calcolatrice. Allen si aiuta con scenari di eccezionale bellezza, oggi la Côte d’Azur, nel passato più immediato Roma, Parigi, ma è in grado di contenere il troppo facile “effetto cartolina”, spegnendolo col cinismo delle sue battute velenose. Magic in the moonlight non avrà la corrosività e la sorpresa dei suoi primi film, ma Allen riesce ancora a far uscire dalla sala gli spettatori con un pensiero non banale e l’ombra di una risata, anche quando ci insegna che l’amore è una magia al curaro. E ci riesce quasi ogni anno con un sorriso aperto o amaro. Chapeau