La Ville Lumière orfana di bagliori: niente più luci all’Odeon, una spianata il Trocadéro, dell’Arco di Trionfo solo briciole. Questa sarebbe potuta essere Parigi il 25 agosto del 1944, se un abile diplomatico, il console svedese Raoul Nordling, non avesse convinto il generale Dietrich von Choltitz – nominato governatore di Parigi da Adolf Hitler due settimane prima – a impedire la detonazione delle cariche di dinamite poste sotto i luoghi strategici e le meraviglie della capitale francese. Le stesse che il führer aveva ammirato in una “gita” nel 1940, tanto da imporle come modello all’architetto Albert Speer per il progetto della “Grande Berlino”.
Volker Schlöndorff ha raccontato con licenza letteraria in un film godibile e ottimamente recitato, Diplomacy. Una notte per salvare Parigi, la trattativa (reale) che fece capitolare il Terzo Reich e permise a Charles de Gaulle di arrivare a Montparnasse. L’ha resa adattando allo schermo l’omonima pièce di Cyril Gely, in una sfibrante battaglia di fioretto tra André Dussollier e Niels Arestrup nelle stanze dell’occupato Meurice hotel. Dussollier nei panni seduttivi e caparbi di Nordling, già indossati da Orson Welles in Parigi Brucia? di René Clément (1966). E Niels Arestrup nell’abito stretto e scomodo di von Choltitz, fedelissimo all’ideologia nazista, acritico esecutore del massacro di 30mila ebrei a Sebastopoli, attivo nella deportazione di ebrei russi, responsabile della distruzione di Rotterdam.
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Schlöndorff ha accettato l’incarico dopo il rifiuto di due grandi registi francesi, di cui non vuole rivelare il nome, per affetto verso la città che gli ha aperto le porte del cinema. «Se Parigi fosse esplosa, non sarei mai diventato un regista». Schlöndorff, nato a Wiesbaden nel 1939, si è trasferito infatti nella capitale francese nel 1956 e ha avuto il privilegio di farsi le ossa come assistente di Louis Malle e Jean-Pierre Melville. «Mentre giravamo al Meurice hotel, un 90enne mi raccontò di aver riconosciuto il generale von Choltitz entrare nell’albergo negli anni Cinquanta (fu rilasciato dagli americani nel 1947 ndr) e di aver cercato di offrirgli da bere. Lui aveva rifiutato con imbarazzo e si era affrettato a lasciare la hall. Mi ha affascinato il paradosso di un uomo incolto che ha salvato un patrimonio artistico incommensurabile, senza fare mai pubblicità del suo gesto, forse più per il vulnus di aver disobbedito a un ordine, da figlio e nipote di militari, che per il fatto di essere stato un seguace di Hitler. Mi ha riportato a occuparmi di nazismo, nonostante non volessi più toccare l’argomento». Un tema sviscerato da Schlöndorff anche ne Il tamburo di latta, dal romanzo di Günter Grass, con cui vinse la Palma d’oro nel 1979 al Festival di Cannes e l’Oscar nel 1980 per il migliore film straniero. «Rimasi scioccato quando Grass confessò nel 2006 di aver militato nelle Waffen-SS come volontario. Non tanto per l’errore in sé, ma per il fatto di averlo tenuto nascosto ai suoi amici. Ho creduto all’inizio che fosse una provocazione, dovuta alla noia di vivere sul piedistallo di eroe anarchico. E invece aveva semplicemente sottovalutato le conseguenze di una dichiarazione, che riteneva pura anneddotica. La Seconda guerra mondiale suscita ancora grandi rivolgimenti».
Intanto, per rimanere nella Storia, solo una settimana fa, il 9 novembre, si festeggiava il venticinquennale della caduta del Muro di Berlino: «Quando accadde, nel 1989, ero a New York. Stavo impacchettando le mie cose per trasferirmi a Berlino, dove non avevo mai vissuto e di cui sono ormai cittadino da 25 anni. Negli anni Novanta accettai la direzione dello Studio Babelsberg, il più antico studio cinematografico al mondo. Ho dato otto anni del mio lavoro per salvare e restaurare centinaia di film, questo è stato il mio contributo alla Germania». Ma per il suo Paese si è anche schierato: dal 2005 al 2009 Schlöndorff si è battuto nella campagna elettorale a favore dell’attuale Cancelliera Angela Merkel, mentre l’amico Wim Wenders supportava l’Spd. «La sosterrei ancora. Siamo fortunati a poter contare su qualcuno che riesce a dialogare con Putin». Nonostante le bacchettate di ieri al vertice dei G20 di Brisbane. «Credo che la politica economica della Cancelliera, di cui risentono molti Paesi della comunità, tra cui anche l’Italia, non sia sempre ben rappresentata. Io sono un keynesiano. Penso che Merkel utilizzi l’austerità per far avanzare le riforme necessarie e far ripartire l’economia. Il problema è che Bruxelles si limita a legiferare, a burocratizzare; invece dobbiamo lavorare sui valori comuni. L’Europa nacque duemila anni fa, e questa radice sarà prevalente».
Schlöndorff si dichiara europeista convinto e mette in pratica questa sua idea attraverso le lingue: passa con abilità dall’inglese al francese all’italiano, che ha imparato a Firenze e che parla con scioltezza. «Su di me ha avuto una grossa influenza Accattone, e Pasolini in generale, anche se non l’ho mai conosciuto. Ammiravo Visconti, ho visto a Spoleto le sue prime regie di Le nozze di Figaro e Manon Lescaut, ma l’ho incontrato solo una volta. Mi sono spesso ritrovato nel cinema di Antonioni, che ho incrociato a Venezia, Parigi e Berlino. E Il mestiere di vivere di Cesare Pavese è il mio libro preferito». La letteratura è un terreno in cui il regista tedesco si muove con agilità, senza temere di confrontarsi con i suoi capisaldi. Una delle sue opere più riuscite, e forse il suo capolavoro, è I turbamenti del giovane Törless, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Robert Musil, premio Fipresci a Cannes nel 1966. Il suo impegno nel cercare di avvicinare le opere letterarie a un pubblico più vasto, attraverso il grande schermo, anche a volte col rischio di banalizzarne la complessità, lo ha reso un elemento anomalo nel panorama autoriale della Junger Deutscher, il movimento di rinnovamento del cinema tedesco nato degli anni Sessanta, di cui fa parte.
«Sono un incosciente. Ho fallito tante volte. Realizziamo i nostri limiti e a poco a poco prendiamo coraggio e le misure di quello che sappiamo e non sappiamo fare. La settimana prossima mostrerò a Parigi il film che ho girato con Fassbinder nel 1969, Baal, sulla ribellione, basato su un canovaccio di Bertold Brecht e che non è mai stato proiettato. La vedova di Brecht, Helene Weigel, ne aveva proibito la visione definendolo “orribile, antistorico e anarchico”. Ora che questo veto non esiste più, è per me una grande emozione farlo ritornare in vita. Lì incontrai Margarethe von Trotta – sua moglie fino al 1991, ndr – e Anna Schygulla». E ancora i suoi riferimenti tornano alla Junger Deutscher: «Da Malle e Melville ho imparato tutto, sono stati i miei maestri, ma non mi sento un regista francese. Mi sento un artista tedesco. Il mio migliore amico è Werner Herzog da cinquant’anni. Penso che alla fine le radici culturali contino».