Il ragazzo favoloso è la storia di un uomo geniale, ribelle, ironico, affamato di conoscenze, di studio, ma soprattutto di vita. Nonostante la salute cagionevolissima, nonostante dalla bocca gli uscisse solo un filo di voce. Questo è il Giacomo Leopardi (nei suoi panni un eccezionale Elio Germano) che Mario Martone ha presentato questa mattina al Lido, vincendo la difficile scommessa di superare lo stereotipo del poeta romantico, restituendoci un intellettuale scettico, triste, ma teso alle passioni e ai piaceri (era goloso, soprattutto di gelato che gli sarà letale, ma di questo il film non parla).
Martone ci accompagna nell’infanzia del poeta, dove Leopardi inframmezza lo studio “matto e disperatissimo” sotto la guida dell’inflessibile e colto padre Monaldo (Massimo Popolizio), ai pochi momenti di svago con i fratelli Paolina (Isabella Ragonese) e Carlo (Edoardo Natoli), tutti e tre legati da un affetto dolcissimo. Duro è lo studio, ma durissime soprattutto sono le condizioni familiari, il padre intransigente e soffocante, perentorio nel negare il mondo al figlio prediletto che anela uscire, la madre (Raffaella Giordano), anaffettiva e ossessivamente religiosa, persecutoria nella morale e nei costumi nei confronti dei figli. «Sono stata molto colpito dalla casa di Leopardi e dalla biblioteca, una costruzione fatta solo di libri e mattoni, quasi una prigione borgesiana», spiega Martone, visibilmente soddisfatto della buona accoglienza del film da parte della critica.
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Bene rende la figura del padre Popolizio, che fa trapelare le sfumature di una personalità contraddittoria, che spinge i figli (anche la femmina) a elevarsi nello studio, ma poi impedisce loro di poter varcare i perimetri casalinghi.
Giacomo riuscirà a scappare di casa solo all’età di ventiquattro anni quando il fisico, già gracile, risente delle ore versate nella foga dello studio e quando il suo nome è già famoso grazie all’aiuto di Pietro Giordani (Valerio Binasco), che sostiene e diffonde le liriche del giovane Giacomo.
Vedremo Giacomo a Firenze accanto all’amico Antonio Ranieri (Michele Riondino), che gode delle grazie di Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis), di cui Leopardi è innamorato. Ma il soggiorno viene interrotto a causa del carattere ribelle di Leopardi e della sua avversione a tutto, anche alla causa dell’Italia in fieri cui non gli riesce di appassionarsi.
Assieme a Ranieri si reca a Napoli, dove verrà travolto dalla città strabordante e generosa, nella gente come nei sapori, dalla forza dei colori e dalla potenza del Vesuvio. L’inizio è un entusiasmo fortissimo, funestato poi dallo scoppio del colera.
Il giovane favoloso – la sceneggiatura, a cura di Mario Martone e Ippolita di Majo sarà in libreria dal 16 ottobre per Mondadori Electa – è un lavoro mastodontico che ci restituisce una figura sfaccettata, non solo umana, ma anche sotto il profilo degli studi dell’intellettuale marchigiano: introduce perfino il Leopardi scienziato e il suo lavoro di sistematizzazione, simil enciclopedica, che aveva iniziato con lo Zibaldone.
«Ippolita di Majo e io abbiamo dovuto scegliere quali parti della sua vita e dei suoi studi rappresentare, perché la materia era vastissima, – precisa il regista napoletano – e abbiamo evitato tutto quello che poteva appesantire la trama, a partire dal rapporto tra padre e figlio, storia di amore, gelosia, possessività e competizione. Abbiamo tentato di mantenere uno sguardo puro sulle carte di Leopardi. Quello su Leopardi è un cantiere che si è aperto dieci anni fa con le Operette morali per il teatro con una lingua, un tempo, una storia che mi hanno affascinato e mi hanno fatto scoprire cose che non sapevo. La voce di Leopardi mi sosteneva, in teatro le Operette morali avevano successo, mi è venuto coraggio e ho capito che si poteva tentare la sfida di un film. Non c’è stata mai una cesura tra il mio lavoro teatrale e quello cinematografico. Sono tante fasi di un viaggio senza mai cesure. Mi sembra di aver fatto solo film leopardiani, compreso Morte di un matematico napoletano».
La pellicola deve molto alla scrittura, ma anche alla recitazione di Elio Germano, «Questo film non ci sarebbe mai stato senza di lui», puntualizza Martone. Germano è particolarmente efficace e non fallisce nemmeno nella prova più ardua, quando si cimenta a decantare versi come quelli di L’infinito. «Ho passato quattro mesi a studiare la figura di Leopardi, ma sarei potuto andare avanti per tre o quattro anni. Leopardi ci insegna a vivere il mondo, senza mai essere comodi. Lo spiega bene quando dice: “Non chinerò mai la testa di fronte ad alcuno, la mia vita è il disprezzo dei disprezzi, la derisione delle derisioni”. Per trovare la sua dimensione fisica mi sono riferito alle raffigurazioni pittorica, alla statua che c’è a Recanati, anche se ci è preso un colpo quando abbiamo visto che aveva la gobba dalla parte opposta rispetto a quella che io ho nel film. Alla fine però mi sono arreso all’idea che una forma doveva passare attraverso il mio immaginario. Non abbiamo raccontato tutte le malattie, non era necessario. Era disgustoso a vedersi, ma ipnotico non appena apriva bocca. Era la fatica del mondo che si porta dietro l’energia, la glacialità che nasconde un fuoco dirompente».
La malattia infatti è rappresentata ma non è enfatizzata nella pellicola. Tanto è vero che il poeta si infuria quando attribuiscono la sua infelicità alle condizioni fisiche. «Leopardi – continua Martone – sente addosso il peso di tutte le gabbie che si formano nella vita di ciascuno: la famiglia, la scuola, il lavoro, la società, la cultura, la politica. Si rifiuta di indossare una maschera, preferisce soffrire ma vivere dentro. Combatte il suo rapporto con l’infelicità spingendosi verso la vita, trovando senso all’esistenza».