Quando Rembrandt era in miniera: intervista al più giovane dei Monuments men

Harry Ettlinger, 88 anni, era il più giovane dei Monuments men, il manipolo di uomini che salvarono i capolavori europei razziati dai nazisti. Oggi un film di Clooney ne racconta le gesta

"Mia nonna, che era superstiziosa, non si sarebbe mai avvicinata a quella mensa. In tredici a tavola!». Harry Ettlinger scherza per mascherare il timore reverenziale nei confronti del Cenacolo vinciano, che ha appena visitato. Schermirsi è la sua cifra, con l’acume di chi si è sempre saputo misurare con vicende più grandi. L’arte in questo caso, quella con la "A" maiuscola, in cui si è imbattuto anche grazie ai Monuments men, un manipolo di uomini e donne di tredici nazionalità diverse, che salvarono e restituirono ai legittimi proprietari migliaia di capolavori depredati dai nazisti.
A questa incredibile vicenda si ispira l’omonimo film di George Clooney (ora nelle sale), in cui Harry è interpretato da Dimitri Leonidas. Ad ammirare L’ultima cena è andato con l’intero cast del film: una gita dovuta, visto che la pellicola rievoca il dipinto danneggiato dal maldestro bombardamento da parte degli alleati avvenuto nell’agosto del 1943. Ma anche quella disgrazia contribuisce a convincere il presidente Roosevelt a creare il MFAA, il reparto per la salvaguardia dei beni culturali europei.

Cenacolo insieme

Ettlinger, classe 1926 – il suo nome di battesimo è Heinz Ludwig Chaim –, entra a far parte dei Monuments per un azzardo della vita. Qualcuno lo toglie all’ultimo minuto dal convoglio che parte per il fronte, facendo fermare il camion, stipato di commilitoni, su cui viaggia. «Nessuno mi ha spiegato quello che seppi solo a distanza di molti mesi: ero stato inserito nella lista degli interpreti per il processo di Norimberga». Viene invece mescolato a un gruppo di intellettuali, che erano o sarebbero diventati direttori di musei, artisti, architetti e storici d’arte. Lui, che si considera solo un piccolo ebreo tedesco, appena diciottenne, sfuggito alla Shoah perché i genitori, grazie anche alla larghezza di mezzi, sono riusciti a ottenere il visto per emigrare in America. «Era l’aprile del 1938. Fummo tra gli ultimi a poter partire. Lasciammo Karlsruhe dopo il mio Bar mitzvah. Soffrii il mare, impazzito per un uragano che infestava la rotta, per tre giorni e tre notti». Dopo sette anni oltreoceano, Ettlinger fa ritorno in Europa, ma questa volta veste la divisa dell’esercito americano. Viene spedito a Givet, nelle Ardenne, fresco di diploma. «Aspettavo la chiamata. I miei genitori erano preparati. Mio padre era stato soldato durante la Prima guerra mondiale e in combattimento aveva riportato una menomazione permanente alla spalla». Ma soprattutto Max e Sue Ettlinger approvano. «Sapevano che i loro tre figli – Harry, Klaus e Simon, n.d.r. – sarebbero stati richiamati nell’esercito per andare a combattere i misfatti dei nazisti. Certo, non immaginavano che avrei concorso a preservare il patrimonio artistico dell’umanità con tanto di cuoco francese al seguito». Gli Ettlinger sono fieri di poter contraccambiare il Paese che li ha accolti, salvandoli da morte certa. I nonni materni, gli Oppenheimer, titolari di una avviatissima fabbrica tessile, ceduta di forza subito dopo la salita al potere del Führer, sono riusciti a raggiungerli, mentre quelli paterni sono scomparsi nei lager. «Le condizioni economiche erano modeste rispetto al tenore tedesco, ma nessuno si lamentava».
Harry, prima di trasformarsi in un Monuments man, staziona nervosamente per quattro mesi a non molti chilometri dalla sua vecchia città, senza sapere nulla del suo destino. «A un certo punto mi fecero entrare in una stanza. Un uomo mi chiese se avrei voluto tradurre per lui dal tedesco. Era James Rorimer, il futuro direttore del Metropolitan Museum di New York». Harry accetta con la stessa modestia e giocosità con cui ora segue la tournée del cast di Clooney. Ma Ettlinger, nonostante la sua giovane età e l’apparente minor caratura rispetto agli altri protagonisti, molto più avanti negli anni e più colti, non è un personaggio di secondo ordine. Il libro su cui si basa la sceneggiatura, Monuments men (Robert M. Edsel con Bret Witter, Sperling & Kupfer, Milano, pagg. 430, € 16,90), descrive ampi scorci della sua azione. Rorimer nel maggio del 1945 lo vuole al suo fianco per un interrogatorio delicatissimo, quello di Heinrich Hoffman, l’amico e fotografo personale di Hitler; a Heilbronn gli affida il compito di portare in superficie i capolavori rinchiusi dentro la miniera. «Passai lì dieci mesi. Ci calavamo nelle viscere per quattro giorni a settimana; mattinate e pomeriggi ad aprire migliaia di scatole per cercare di capire dove erano state nascoste le opere che cercavamo. Fu incredibile l’entusiasmo nel prendere in cura le vetrate della cattedrale di Strasburgo. E altrettanto snervante». Settantatré casse in cui Ettlinger ripose quello che i francesi consideravano il loro tesoro nazionale per eccellenza, assieme al suo onore nei confronti della nuova e della vecchia patria.
«Ricordo che avevamo il permesso di scattarci delle foto con le opere» e una in particolare fece il giro del mondo: il promosso sergente Ettlinger e il tenente Dale Ford rimirano un Autoritratto di Rembrandt che avevano appena rinvenuto.

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L’immagine viene usata a scopo promozionale, ma nel caso di Ettlinger ha un significato più profondo. Per la prima volta può vedere il quadro rapinato nel museo della sua città, Karlsruhe, in cui lui non aveva mai potuto mettere piede per via delle leggi razziali. La sorpresa è ancora più grande quando trova copia proprio di quel dipinto nella collezione che il nonno Otto Oppenheimer aveva fatto nascondere prima di fuggire in un deposito vicino a Baden Baden. Harry va a dissotterrarla di nascosto, Monuments di se stesso, su indicazioni del nonno. «Ora quell’acquaforte è appesa nel mio salotto. Non ve la vendo a nessun prezzo», minaccia con aria sorniona.
Ettlinger è l’unico degli MFAA a non seguire la carriera in campo artistico. Rientrato negli States si laurea in Ingegneria meccanica e lavora prima alla Singer e poi nella difesa. Ha dato vita a una fondazione intitolata a Raoul Wallemberg, il diplomatico svedese che contribuì a salvare centomila ebrei ungheresi, ed è molto attivo nell’organizzazione di veterani locali e nazionali. Ma, nel ricambiare con forza la stretta di mano, conserva la stessa umiltà di ragazzo. «Sono stato esauriente?». La risposta vive nelle chiese e nei musei d’Europa.
Mani alte

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