«La gente -?/ Legge temendo Dio/ E Dio è a disposizione». Centodieci anni fa, il 18 marzo del 1904, nasceva un ragazzo tormentato, autore di questi versi quasi cannibali, nel paesino di Sežana, cuore di una Mitteleuropa ribaltata. Nell’allora impero austroungarico, poi Italia, oggi Slovenia, Srečko Kosovel in 22 anni stravolse, diventandone uno dei padri, la poesia slovena, che aveva conosciuto i natali solo nella prima metà dell’Ottocento con France Prešeren.
Questa mattina alle 11, davanti al suo monumento, nel Giardino pubblico di Trieste, verrà presentato Tra Carso e Caos, Pre/sentimenti. Il volume, in edizione limitata di 110 copie numerate, contiene quaranta poesie con testo in sloveno e in italiano nella traduzione di Darja Betocchi, illustrate da tredici tavole costruttiviste del pittore triestino Eduard Stepančič, in omaggio all’ultimo “cammino estremo” del poeta di Sezana, morto per meningite il 27 maggio del 1926. Kosovel giocò infatti prima da impressionista, poi da costruttivista, con il suo idioma “giovane”, perché proibito dal fascismo: «L’assolutismo si avvicina. Invano/ aspettiamo e speriamo per il meglio./… Il secolo si sta contraendo».
Si sfiorarono probabilmente Kosovel e Stepančič. Sicuramente entrambi vissero la pienezza totalizzante della natura carsica che strangola Trieste, facendola esplodere nel mare, rendendone estrema la bellezza risicata e verticale. Nella sua Tomaj, dove visse infanzia e giovinezza, perduta e selvaggia tra le doline, eppure a due passi dal luccicore del porto austrungarico, Kosovel era rapito dai pini che ritornano prepotenti nella sua poesia, nel suono grave – come fa notare Betocchi – dello sloveno bori, in cui il vocabolo italiano pino sembra quasi irridente. «Vidi dei pini crescere/al cielo. Imperturbabili nei fuoco dei soli. Vidi già il rogo/che li arderà». Ricorre allegra la bora «La bora ha spalancato la finestra/ Calde stelle cadono sui campi. Primavera/ Primavera». Ma anche cupa. «Ma io smanio come la bora -/l’insonnia fuori mi conduce./Percorro nel silenzio carsici sentieri./La notte li ammanta di luce». Un’assolutezza che avvolge, dalla barricata irredentista, anche la lingua rocambolesca e sperimentale del conterraneo e quasi coetaneo Scipio Slataper che ne Il mio Carso (1912) scrive «Bella è la Bora. È il tuo respiro fratello gigante… Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la tua rauca anima». Una natura sfregiata per entrambi dal fronte nella Prima Guerra mondiale. Kosovel così canta quella cicatrice: «Campi./Strada e rovine./Buio./…Qualcuno spia/dietro di me,/ dentro di me/frenesia/e presagio/di morte»
Darja Betocchi rispetta la rima originaria, anche quando «pecca di eccessiva ingenuità per gioventù». E bene fa a trasformare in Viole i Ciclamini. I versi guadagnano in questo "tradimento", restituendo il senso di solitudine estrema che compenetra lo sloveno: «Profumano/le viole-/sole,/sole,/sole.». Betocchi si permette anche un’ulteriore libertà in Mezzanotte circa, in cui viene evocata «Lepa Vida», «Bella Vida», un archetipo nella poesia slovena, da cui prende il nome anche il giornale da Kosovel fondato nel 1922. «Il cuore di Trieste è malato, perciò Trieste è bella. La pena fiorisce nella bellezza», versi che attraversano anche l’intenso e lirico film di Elisabetta Sgarbi, dedicato alla città, Il viaggio della signorina Vila (2012). Betocchi li rende più duri, concreti, feroci, battenti: «Il cuore-Trieste è malato./Per questo è bella Trieste. Il dolore fiorisce nella bellezza». Versi quasi futuristi, come certa deriva della sua poesia. «Morire./Il rosso comignolo canta./Ta, ta, ta. La, la, la./Non c’è serenità.». Lo scricchiolio dell’impero austrungarico travolge la vocazione interculturale e interreligiosa della città che si era data, fino a un momento prima, arie da raffinato salotto d’affari mitteleuropeo, in cui Carlo VI d'Asburgo l’aveva trasformata dal 1719. Un luogo multietnico e multireligioso che diventa per sempre «una città sull’orlo del mondo", come suggerisce Miroslav Košuta.
Tra Carso e caos, regala due inediti dell’intellettuale che chiamano il Rimbaud di Lubiana. Ma più importante è la sua eredità in questa lingua che si è fatta più esperta, grazie a bravi poeti come Michele Obit per cui Srečko «se vivesse oggi probabilmente scriverebbe/solo poche righe – parole commemorative/per questo mondo privo di misericordia” (Le parole nascono già sporche, Materiali/6, 2010)
Tra Carso e Caos, Pre/sentimenti a cura di Darja Betocchi e di Poljanka Dolhar, Comunicarte edizioni, Trieste, pagg 136, € 15,00