Il vento del nord sui nostri sentimenti

Il cinema scandinavo scavalca le bergmaniane crisi di coppia riflettendo sull’affermazione di sé, anche attraverso il sesso, e sull’incapacità di essere amati. Così la trilogia di Haugerud e il bel film di Lilja Ingolfsdottir
Diversamente dal mondo cattolico, dove la famiglia, pur contestata, fino a poco tempo fa ha retto, il mondo protestante dei ghiacci al cinema si è sfasciato in lauto anticipo e ricomposto, apparentemente con grande snellezza, in nuclei patchwork. Prima di tutti, di crisi e cesure sentimentali ci ha parlato Bergman con le sue relazioni multiple in film di indimenticabili bellezza formale e rigore fotografico, da Una lezione d’amore (1954) al celeberrimo Scene da un matrimonio (1973), a puntate pensate per la tv. Lo stesso regista svedese è stato profeta e capostipite della famiglia allargata, come racconta nella sua autobiografia, La lanterna magica (Garzanti, 2013), in cui ha ripercorso i suoi numerosi legami e matrimoni con figli a iosa, tra cui Linn Ullmann – che ha preso il cognome della mamma Liv, attrice feticcio di Bergman – e che ha scritto dei bei libri, passati silenziosamente in Italia, l’ultimo sul rapporto con il padre, Gli inquieti (Guanda, 2o21).
Dal Nord arriva oggi una riflessione sulle conseguenze più estreme dell’implosione familiare, nel frattempo ben testata anche più a Sud, e sui danni di amori primari non sicuri, di individui che si sentono inadeguati a una relazione, o, meglio, incapaci di accettare di essere amati. Ce lo racconta La solitudine dei non amati di Lilja Ingolfsdottir, regista norvegese che alla soglia dei cinquant’anni è riuscita a superare lo sbarramento di corti molto lodati per approdare al lungometraggio che governa benissimo.
Ingolfsdottir racconta la storia di Maria (Helga Guren), madre di quattro figli, due adolescenti o quasi, avuti da un primo matrimonio, e due piccoli, nati da una seconda unione con un uomo di cui si è innamorata profondamente. Il lavoro porta il secondo marito spesso lontano da casa e Maria non riesce a far fiorire la sua creatività (su questo il film è un po’ fumoso) sotto il peso dell’organizzazione della casa e dell’educazione dei figli. La pressione cui è sottoposta si esprime con una rabbia che riversa sul nuovo compagno e sui figli, finendo per perdere tutto, soprattutto la vicinanza e l’amore che reclama attraverso l’esasperazione. Alle soglie del secondo divorzio, è costretta a iniziare di nuovo lavorando prima di tutto su di sé.
La storia si sposta dalla crisi della coppia al piano personale con una interessante ricostruzione visiva associata alla terapia psicoanalitica. Maria riflette sulle ombre di un legame oscurato dalla paura dell’abbandono che quasi provoca per timore che piombi su di lei inaspettato. Peccato che in questa ricerca la regista indaghi quasi sempre ascendendo il ramo femminile, colpevolizzandolo, pur riconoscendo così l’assoluta preminenza di questo ultimo nella formazione individuale e dando per acquisita l’autonomia femminile. L’indipendenza delle donne è anche il terreno da cui parte Dreams di Dag Johan Haugerud, vincitore della Berlinale e capitolo di una trilogia sui sentimenti con Love, Dreams e Sex (dal 15 maggio nei cinema), distribuita da Wanted come La solitudine dei non amati. Haugerud riflette su come oggi venga accolto l’istinto primario dell’Eros con una scrittura che corre su tutti i binari logici e non. Il regista-sceneggiatore, ripercorre, anche grazie a un’ironia che arriva al grottesco, le evoluzioni dei rapporti eterosessuali, omosessuali e fluidi in una società complessa, evoluta, ma sempre ancorata all’esclusività, alla gelosia, alle convenzioni.
Dopo l’accetta di Festen del danese Vinterberg (1998), dal Nord spira un filone nuovo, ultraloquace, che tiene per qualità della sceneggiatura e dialoga con una fotografia apparentemente fuori contesto, che prende in contropiede, rincorrendo una bellezza urbana anomala rispetto al panteismo votato alla potenza della Natura del cinema scandinavo. Da noi aleggiano cinismo e bizantinismi borghesi, che continuano ad avere il loro capolavoro ne I pugni in tasca del lontano 1965. In Italia la famiglia è in pericolo, ma il cinema ancora non lo mostra con consapevolezza (ad eccezione di Familia di Francesco Costabile). Diversamene dalla letteratura, anche se a volte frutto di un’autoesposizione non sempre riuscita, il cinema è restio a mostrare una disfunzionalità comune a molte famiglie, spesso per lo squilibrio a discapito delle donne che non vogliono più portarne esclusivamente il peso. Senza contare il mancato riconoscimento dei nuclei queer, continuamente messi in discussione dalla politica. Certo, sono elucubrazioni di Paesi con la pancia piena, mentre il resto del mondo sopravvive. Ma intanto il cinema soffia dal Nord portando avanti i diritti.