La mostra a Trieste. Esposte al Magazzino delle idee gli scatti avanguardistici e futuristi delle sorelle Wulz, Wanda e Marion, nella Trieste dei primi del 900
C’è stato un tempo in cui Trieste incarnò il mito della Belle époque. I traffici portuali, le assicurazioni, il commercio del caffè crearono agli inizi del Novecento le condizioni per il fiorire di una giovane generazione, allenata dall’Impero asburgico a parlare indifferentemente italiano e tedesco (gli sloveni anche lo sloveno), interessata alla cultura, con disponibilità economiche che permettevano spostamenti da Vienna a Firenze, dove introducevano movimenti letterari, teatrali, artistici e scientifici di cui nulla si sapeva nel resto d’Italia: da Peter Altenberg a Karl Kraus, da Sigmund Freud a Walter Gropius, da Egon Schiele a Gustav Mahler.

Wanda Wulz “ Io + gatto ”, Trieste, 1932 Firenze, Archivi Alinari – collezione Zannier.jpeg
Il femminismo delle Babe triestine
In questo contesto nordizzante le donne triestine, o babe, avevano una libertà, figlia della tradizione asburgica, solo sognata dalle italiane. E questo predispose il terreno per la nascita di artiste colte e ribelli, che incarnavano un modello femminile androgino, segaligno, sportivo, e che però non ebbero la gloria che meritavano, rimanendo imprigionate dalla Storia. Trieste dopo la Seconda guerra mondiale, da regina d’Asburgo divenne l’ultimo pensiero del Belpaese, che fece appassire il porto. Dimezzato l’assetto economico della città, la cultura seguì la stessa sorte. Ma agli inizi del Novecento Trieste era ancora in subbuglio e sfornò un manipolo di artiste di spessore: tra di esse, solo Leonor Fini riuscì a bucare la scena internazionale perché si trasferì a Parigi (fino al 22 giugno Palazzo Reale di Milano le dedica una mostra, si veda l’articolo di Ada Masoero). Altre personalità ebbero minor fortuna, come Maria Lupieri (1901-61), pittrice e scenografa; Maria Melan (1923-2023), architetto, pittrice, illustratrice, grafica pubblicitaria, docente e atelierista; Miela Reina (1935-72), pittrice, grafica, fumettista, scenografa, scultrice; Anita Pittoni ( 1901-82), designer di moda, di costumi teatrali e arredi, artista artigiana, disegnatrice, pittrice, poetessa, scrittrice ed editrice. Infine le sorelle Wulz, Wanda (1903-84) e Marion (1905-93), fotografe.A queste figure leggendarie, che sperimentarono nuove scritture, grafiche e tessuti, tecniche di sovrapposizione fotografica, ispirandosi alle avanguardie, l’istituto di cultura italiana di Bruxelles aveva dedicato l’anno scorso una mostra a cura di Marianna Accerboni.
La mostra della famiglia Wulz a Trieste
Trieste omaggia con un’esposizione al Magazzino delle idee la famiglia Wulz e, in particolare, le sorelle che trasformarono i loro scatti in sperimentazione futurista. De relato, il ritratto si estende anche ad Anita Pittoni che visse un periodo con loro, incrociando abilità, idee e affetti, dopo la morte di Carlo Wulz, padre delle geniali sorelle.Fotografia Wulz espone una serie di scatti, selezionati presso gli Archivi Alinari, che ha acquisito il materiale dello studio di famiglia fondato da Giuseppe, nonno di Wanda e Marion. Dal 1968 Giuseppe raccontò l’espansione di Trieste, a partire dai lavori del Porto vecchio, ai cantieri, alle fabbriche, alle grandi navi del Lloyd. Trieste, prima che Carlo VI le desse lo status di porto franco nel 1719, era stata un paesone di seimila anime che poi Maria Teresa aveva trasformato in una Vienna Bianca. Carlo, figlio di Giuseppe, deviò sulla ritrattistica di notabili, di gruppi sportivi (dai ciclisti ai fantini, agli schermidori), di artisti, fino a documentare il passaggio storico del corteo funebre per gli arciduchi Francesco Ferdinando e Sofia che sfilò il 2 luglio 1914 a Trieste, dopo l’uccisione avvenuta a Sarajevo il 28 giugno. Carlo si cimentò anche nell’inchiesta etnografica, ritraendo il popolo negli abiti tradizionali montenegrini e sloveni eccentrici ed eleganti.
Marion e Wanda
Ma furono le figlie a trasformare la foto in arte, dietro e davanti alla macchina, dove recitavano un mondo in attesa. Respiravano la città popolata da Svevo e Joyce, Saba e Bazlen, con Montale che arrivava per le feste a Villa Veneziani, suocero di Svevo. Ma avvertivano anche il teatro delle ombre, in una città dove le trincee della Prima guerra mondiale erano state costruite a un soffio dai bei caffé e lo squadrismo avanzava deciso contro gli sloveni. Le sorelle Wulz, armonioso miscuglio di geni tedeschi e slavi, temperati dalla mediterraneità, si trasformavano reciprocamente in modelle per audaci sperimentazioni. Invaghitesi del movimento futurista – ci sono anche due bei ritratti di Filippo Tommaso Marinetti – si facevano ritrarre con gli abiti a righe orizzontali e verticali di un geometrismo rigoroso, colorato e fantasioso, pensato con tessuti speciali da Anita Pittoni, che disegnò anche gli abiti tradizionali swahili e zingareschi che W e M interpretavano danzando.
Il dinamisco degli scatti
Le sorelle amavano riprendere il dinamismo delle atlete durante le evoluzioni ginniche, la spadaccina Irene Camber, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Helsinki, la scuola acrobatica di Etta Paulin. Wanda poi fu ritratta da Marion come un’aviatrice. Era quello delle sorelle Wulz un progetto poetico con punte di erotismo. Nel 1932 Wanda fu l’unica donna a partecipare alla Mostra Nazionale di Fotografia Futurista a Trieste. Nella leggenda Wanda è ricordata per aver sovrapposto il suo volto con i tratti di un muso felino, in Io + Gatto, di cui a Trieste sono esposte le lastre negative originali. Marion, invece, per aver documentato l’arrivo nel 1945 dalle forze iugoslave e neozelandesi che liberarono una Trieste divisa e prostrata, umida e nera come quasi tutte le sue sorelle europee.
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Fotografia Wulz
A cura di Antonio Giusa e Federica Muzzarelli
Trieste, Magazzino delle idee
Fino al 27 aprile