Quale spazio lascia la nostra società ai sognatori? Questo si chiede Luc Jacquet mentre si fa sorreggere dal vento polare contrario alla sua direzione di marcia. Di marce Jacquet ne sa qualcosa, quella dei pinguini nel 2006 ha vinto l’Oscar come miglior documentario. Ma il regista francese continua la sua esplorazione della terra più inviolata e primordiale del pianeta, l’Antartide, su cui ha messo piede per la prima volta a 23 anni, con Viaggio al Polo Sud. In un superbo bianco e nero – nella fotografia di Christophe Graillot, Jérôme Bouvier, Sarah Del Ben – parte dalla Patagonia, sulle rotte di Magellano, Charcot e Shackleton, dove volano i condor, gli alberi diventano carbone, le nuvole si infilano come serpenti tra i dorsi ricciuti delle montagne.
Parole e immagini sono poetiche, la regia è maestosa e assoluta come il paesaggio che restituisce, con cambi di inquadratura frequenti: dai campi lunghissimi ai dettagli sullo specchietto retrovisore dell’auto o sugli oblò della nave. Per passare poi alle planate dei droni sulle regali aperture alari degli uccelli, una partenza verso l’immensità. «Nella Terra del Fuoco l’immaginazione scalpita», spiega con la sua voce bassa e suadente Jacquet, mentre associa le monachelle che salgono dal fuoco alle stelle fitte che ricamano il cielo. Il montaggio di Stéphane Mazalaigue incalza il racconto, fondendosi con le musiche originali di Cyrille Aufort. Non ha il dono della sobrietà la prosa di Jacquet, ma è in sintonia alla potenza del “morso dell’Antartico”, un mal d’Africa in versione polare. «Qui il tempo – continua l’autore –, ha un’insolita profondità: sembra che l’incanto e le leggende siano a portata di mano». Benvenuti nel regno dei ghiacci, tra le forze titaniche, le acque così fredde da essere quasi dense. «Se hai pazienza, mille cose cominciano a suonare in segreto per te», suggerisce ancora il regista. Radicali sono gli effetti sonori di Pascal Dedeye su montaggio di Sammy Bardet. Così possiamo godere dei richiami giocosi delle foche sotto il mare, dello scricchiolio delle bolle d’aria intrappolate da secoli nei ghiacciai che d’un tratto si liberano, del chiacchiericcio allegro dei pinguini, dei tuffi delle balenottere e dei versi delle foche pelandrone mentre dormono. L’incontro con gli iceberg non è realistico: per come ce le mostra Jacquet queste montagne di ghiaccio roccioso hanno mille facce, sono enigmatiche ed effimere come le banchise in cui la nave tenta di farsi strada. Gli iceberg, ci dice Jacquet, «sono monumenti migratori, ciascuno con il suo aspetto e il suo carattere, amano viaggiare prima di liberare la loro acqua dolce in mare». Non è tutto suadente e mistico nel viaggio verso il Polo, ma si viene ripagati dalla “qualità del silenzio” e dall’abbraccio del grande schermo mentre ci si abbandona.
4 stelle su 5
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Viaggio al Polo Sud
Luc Jacquet
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