Più che manifesto del femminismo, il film di Lanthimos, in gara agli Oscar, è una feroce critica alle convenzioni sociali e all’ipocrisia. Grandi interpreti, da Dafoe a Ruffalo, ma su tutti trionfa la primitiva fisicità di Stone
Chi sono le povere creature (con punto esclamativo) cui si richiama il titolo del fortunatissimo film di Yorgos Lanthimos, su cui sono piovute undici nomination agli Oscar e un Leone d’oro a Venezia? In teoria, gli esseri viventi assemblati dal dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe): l’oca con il muso da maiale, la capra e il cane con la testa e il becco d’oca, lo stesso dottore pieno di cicatrici ovunque, a sua volta terreno di sperimentazioni da parte del padre scienziato. E Bella Baxter (Emma Stone), giovane donna cui è stato trapiantato il cervello del bambino che aveva in grembo.
O forse no. Non sono loro le povere creature. Forse il regista greco ci vuol dire che i mostri non sono i freak ma i cosiddetti “normali” che piegano le convenzioni sociali alla logica del più forte.
Siamo nell’Inghilterra vittoriana e la giovane Bella è il nuovo ircocèrvo creato da Baxter, una donna riportata misteriosamente in vita, dotata di una straordinaria energia e intelligenza, che impara a usare prima di tutto il corpo per poi mangiarsi il mondo. Apprese le prime nozioni di comportamento, infatti, fugge dalla casa di Londra per andare a Lisbona con l’amante Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), un avvocato narcisista che maschera la sua misoginia con una patina di edonismo dannunziano e il desiderio di possesso egoista e vanesio con una romantica propensione al libertinaggio. Quando la coppia parte per un Gran Tour di lusso Bella truffa e distrugge la personalità del suo partner semplicemente imitando, secondo il metodo scientifico, quello che fa Duncan, cioè ingannare materialmente e sentimentalmente il proprio prossimo. Ma lo fa senza il cosmetico delle buone maniere. Bella è logica nel suo essere istintuale, priva di orpelli nel raggiungimento del suo obiettivo.
Se c’è un côté fiabesco in questa Alice nel paese degli orrori o Frankenstein al femminile è nei colori saturi della strepitosa fotografia di Robbie Ryan, nella sproporzione delle figure e dei paesaggi data dall’uso grandangolare di una lente per proiettore adattata alla camera e di un tipo di pellicola (sì pellicola!) che sfoggia colori più accesi e crea forti contrasti. Solo la prima parte, quella che connota la prigionia casalinga, è in bianco e nero. Sicuramente anche nei costumi di Holly Waddington (si merita l’Oscar!) che sembrano quadri futuristi.
Lanthimos è surreale fino a un certo punto perché la realtà la tiene ben ferma pur allargandola fino al parossismo. Per esempio, in The lobster (2015), che racconta di un prossimo futuro in cui è vietato essere single, non va tanto lontano da un Regio decreto fascista del 1926 che stabiliva un’imposta sul celibato per i maschi non sposati. In Povere creature! non è purtroppo surreale l’atteggiamento di un signore molto maturo che strizza l’occhiolino maliziosamente a Bella. E nemmeno lo scandalo scatenato dalla ricerca di piacere fisico della ragazza. Potrebbe apparire un film in chiave femminista, ma in realtà è un feroce manifesto contro l’ipocrisia, guidato da un eros freudiano che di tutto si impadronisce. È un film sul desiderio di libertà, che si avvale di un umorismo sconcio e irriverente.
Bella è una specie di idiota dostoevskiano, che tutti bramano poco castamente (perfino il cosiddetto “padre” dottor Baxter) come per reimpossessarsi della ingenuità infantile e della purezza perduta. Anche se Lanthimos un po’ furbescamente strizza l’occhio al MeeToo, in realtà si sottrae al dibattito odierno ambientando la vicenda nel XIX secolo, sulla base del libro dello scozzese Alasdair Gray, rielaborato nella sceneggiatura di Tony McNamara. Arrivata ad Alessandria, Bella si accorge che il girone infernale della povertà non fa distinzione di sesso e quando finisce a lavorare nel bordello, capisce che tra le persone che cercano il piacere, ci sono anche quelle che vi si recano per fare del male e, tra queste ultime, non spiccano solo uomini (vedi la maîtresse Swiney, Kathryn Hunter).
Il film è un vero godimento cinefilo anche grazie alla bravura degli interpreti, da Dafoe a Ruffalo, al giovane studente Ramy Youssef, a Hanna Schygulla, aristocratica donna indipendente; ma soprattutto grazie a Emma Stone, ai suoi grandi occhi sbarrati e alle movenze genialmente primitive. Stone non si limita a una magistrale interpretazione, come quella che ha realizzato nella Favorita, sempre con Lanthimos, dove ha fatto da spalla all’Oscar per la ottima Olivia Colman. Dimostra anche di mettere in pratica la vera parità di genere figurando tra i coproduttori (con il regista, Ed Guiney ed Andrew Lowe) che si dividono i proventi (speriamo lauti) del film.
5 stelle
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