Da quando sono adolescente sento parlare della morte del cinema. E mi sono sempre ribellato a quest’idea». Nato a Palermo nel 1971, cresciuto in Etiopia, mamma algerina, Luca Guadagnino ha i semi del suo sguardo internazionale già nelle radici. Da Melissa P. (2005), passando per Io sono l’amore (2009), A bigger splash (2015), Chiamami col tuo nome (2017), Suspiria (2018), Bones and all (2022) – per cui ha vinto il Leone d’argento a Venezia – ha avuto un vasto successo di pubblico di vocazione globale e giovane, come quello che ha riempito le sale per il fenomeno «Barbienheimer». «Mi deprime l’idea che si crei una neolingua dai social media, che i giornali seri debbano rincorrere. Però questo fenomeno è un fatto che ci porta a un’analisi di che cosa sia il cinema, dove vada e come si faccia un film. Ma anche del cinema come esperienza collettiva, condivisa dal pubblico. Io vedo l’involuzione, la decadenza, la contrazione e l’obnubilazione della spinta propulsiva da parte dell’industria del cinema italiano, che include anche gli esercenti e si specchia nel modo in cui il pubblico frequenta le sale. Io ho vissuto la singolare esperienza di crescere a Palermo e di noleggiare le videocassette da Franco Maresco, quando ancora non era regista. Ero un tredicenne che si confrontava per ore con il venticinquenne Franco, coltissimo, convinto però che il cinema fosse finito. Ma da allora, e sono passati quarant’anni, ho avuto tante testimonianze del contrario. Forse c’è chi pensa che le nuove forme di regia abiurino un’idea di cinema come esercizio di critica del Reale, con la erre maiuscola, e che conti solo l’intrattenimento narrativo, ma non è così. In Italia una forma di conservatorismo molto spinto sottovaluta le nuove generazioni; la nostra è una cultura più agée di quella americana o di quella cinese. Io a 52 anni sono considerato un giovane cineasta. Recepiamo con molta lentezza l’impatto dello sguardo sul mondo dei giovani e il modo con cui forgiano lo spazio e il tempo nel bene e nel male, come accade in America o in Corea. In Italia guardiamo quest’elefante che si accascia piano piano. Mentre magari al di là del cono d’ombra di questo gigantesco animale esiste un fermento molto più brulicante che s’ignora, ma che c’è. È faticoso pensarsi di fronte alla lentezza in cui si muove questo Paese, anche culturalmente, e decidere di non fare parte di questo cono d’ombra. Così è il pubblico di “Barbienheimer”,che è sempre esistito. E io ho sempre pensato che stare da un’altra parte fosse la cosa migliore. E avere fiducia profonda nella curiosità di chi sta dall’altra parte e contagia gli altri. Nel caso di “Barbienheimer” c’è il trionfo dell’enorme qualità degli uffici di marketing che hanno distribuito questi due film: il potere immaginifico dell’industria cinematografica americana è più forte di qualsiasi altra istanza industriale».
Le pellicole di Guadagnino in comune con il fenomeno di «Barbienheimer»hanno anche un parterre di attori eccezionali, da Tilda Swinton a Timothée Chalamet a Daniel Craig. «Truman Capote diceva che l’amore, non avendo geografia, non conosce confini. Faccio migrare questo concetto al cinema. L’idea che un regista debba confrontarsi solo con il vivaio degli interpreti che appartengono al proprio ambiente nazionale è una follia. Non può esserci confine all’incarnazione immaginifica che proietti sullo schermo. È la lezione che ho imparato dal cinema europeo degli anni 70 e in particolare da Bernardo Bertolucci. In Novecento l’aristocratico parmense e il contadino della bassa sono interpretati da un grande attore hollywoodiano come Robert De Niro e da un interprete francese come Gérard Depardieu. Che limite si è posto Bertolucci? Nessuno, se non quello di far incarnare a questi attori due personaggi che gli appartenevano in maniera viscerale, essendo lui originario di quelle terre. Dal punto di vista del mio processo creativo penso che la seduzione di guardare un film attraverso il filtro dell’immaginifico delle star sia ancora molto potente. Oltre al fatto che un attore diventa famoso e importante perché è un grande attore».
Come Zendaya, protagonista di Challengers, la commedia che avrebbe dovuto inaugurare la scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia. «Ci sono situazioni imprevedibili che anche un control freak come me ha imparato ad accettare. Era impossibile prevedere un momento di stallo dell’industria del cinema per lo sciopero degli scrittori e autori». Proprio lunedì scorso si è raggiunto un accordo, per cui l’intelligenza artificiale non viene proibita ma fortemente regolamentata. «Ho appoggiato lo sciopero, le cui istanze sono sacrosante. Gli studios non possono pensare di far fuori uno scrittore e sostituirlo con un computer. Ma invito tutti noi che lavoriamo nel cinema a unirci a testuggine anche contro le regole molto strette dell’industria che cerca di controllare il più possibile il risultato finale del film dal punto di vista creativo e finanziario. Così gli esiti sono sempre e comunque insoddisfacenti con o senza l’IA. I grandi film, sia quelli che hanno avuto exploit incredibili o sono usciti sotto traccia per poi riaffiorare come classici assoluti, come Barry Lindon di Stanley Kubrick, e che forgiano l’immaginario di lì a venire, sono sempre dei prototipi, esplorano la realtà per la prima volta e cambiano le regole dei gioco.
L’Mcu, il Marvel cinematic universe, ha ripetuto in maniera diabolica il modello della narrazione di Iron man, costruito per sedurre, saturandosi nel tempo. Dobbiamo lottare contro chi cerca di tarpare le ali narrative del cinema. Dobbiamo saper scommettere su qualcosa di nuovo. Tim Burton con i suoi due Batman, Richard Donner con il suo Superman, Sam Raimi con i suoi tre Spiderman sono esempi
di grandi cineasti molto consapevoli che hanno messo in atto scommesse con questi film. Dobbiamo continuare a fare prototipi».
Guadagnino è anche produttore.
«Che è tutt’altro lavoro rispetto a quello dle regista. Sin da piccolo ero interessato al cinema come luogo dell’espressione di un autore in toto. Dopo l’esperienza da incubo di Melissa P. – che avevo immaginato come un’eroina manga e che ha seguito altre strade –, ho deciso di essere il dominus dei miei film. Il primo con la mia regia è stato Io sono l’amore. Sono sempre stato affascinato dalla figura di Steven Spielberg, che è un cineasta duro, cattivo e giocoso, ma purtroppo anche responsabile, come produttore, di aver contribuito a creare summer blockbuster e un cinema industriale spazzatura con le opere di altri da lui prodotte. Ho molto riflettuto sul suo esempio
e ho cercato di mettere in atto un processo diverso, volto a fare fiorire nuove leve».
La Frenesy, la società di produzione di Guadagnino, che porta il nome di un personaggio di Vineland di Thomas Pynchon, quest’anno ha prodotto sei film, di cui due dello stesso regista: Challengers che uscirà il 25 aprile 2024, e Queer, in fase di montaggio. E altri quattro, di cui due – Enea di Pietro Castellitto e The meatseller, corto di animazione di Margherita Giusti – sono stati presentati a Venezia.
«Sono occasioni nate dal piacere di lavorare assieme. Il rapporto con Pietro è iniziato discutendo sul suo film precedente, I predatori, che non mi era piaciuto. Sono rimasto colpito dall’onestà intellettuale e priva di maestà lesa di Castellitto e così, insieme a Lorenzo Mieli, abbiamo prodotto questo film disperato e tenero, in cui si rappresenta bene la liquidità dei sentimenti contemporanea.
Di Margherita Giusti, che conosco da molto tempo, mi piaceva l’idea delle animazioni poetiche, così diverse da quelle di qualsiasi altro. The meatseller è stato prodotto con il Premio governativo avuto per Chiamami col tuo nome, conferito quando un film in sala incassa più di un tot. La società che l’ha prodotto riceve parte di quell’incasso in fondi che devono essere riconvertiti per finanziare nuovi progetti.
E poi c’è 19, il film del genialoide Giovanni Tortorici, l’esperienza di un diciannovenne, che dal particulare diventa universale».
Capiterà anche a Guadagnino di fare un film su di sé?
«Non ho mai realizzato un film autobiografico. Ogni tanto mi balena in testa di raccontare la mia infanzia in Etiopia, conclusasi con un incidente stradale contro un enorme albero, in cui sono morti diversi amici carissimi dei miei genitori. È stato un film di Jean Renoir, Il fiume, a ricordarmi la tensione di quella giornata che fece naufragare la nostra avventura in quel Paese segnato dalla stagione coloniale fascista italiana di sanguinari straccioni.
Ma mi piacerebbe piuttosto realizzare un film sulle pellicole che non ho mai girato, che sono più di quelle che ho fatto. O montare un film con tutte le scene tagliate di tutti i miei lavori precedenti: ciò
che non esiste nel film che esiste».
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