«Non si tratta di una storia vera, ma di una vicenda strutturata su un insieme di fatti veri. Sarebbe potuta essere reale». Così Vadim Perelman, regista ebreo ucraino, naturalizzato canadese, inquadra il suo Lezioni di persiano – in onda il 27 gennaio (alle 21.15) su Sky per la Giornata della Memoria – come un nuovo, originale capitolo per stigmatizzare l’orrore della Shoah. Il film racconta la storia del giovane ebreo francese Gilles (Nahuel Pérez Biscayart), che, durante una retata nella Francia occupata dai nazisti nel 1942, sfugge alla fucilazione dichiarando di essere persiano. Due incredibili coincidenze lo lasciano in vita: l’aver scambiato pochi minuti prima un pezzo di panino con un libro in farsi e l’ambizione dell’ufficiale Kopch (Lars Eidinger), nel cui campo Gilles verrà deportato, di imparare il persiano per trasferirsi a Teheran dopo la guerra. «Allo sceneggiatore, Ilya Zofin, – racconta Perelman per spiegare la genesi del film – era rimasta scolpita nella mente la pubblicità di un libro letta, appena quindicenne negli anni 90, su una rivista sovietica.
Poche frasi che rimandavano alla vicenda di un prigioniero di un lager che si era salvato insegnando a una guardia una lingua inventata. E qui si è palesata la nostra coincidenza. A sceneggiatura ultimata, mentre cercavamo il posto dove girare il film, abbiamo scoperto che esisteva un libro di Wolfgang Kohlhaase, intitolato L’invenzione di una lingua, in cui un ebreo insegna a un kapo un idioma inesistente. Quella di Gilles che si trasforma in Reza potrebbe essere la summa di tante storie di sopravvivenza, dettate dall’acume e dall’istinto di conservazione».Il film forse corre, fatte le debite proporzioni, sul filo dell’autobiografismo per il regista, la cui infanzia è, a dir poco, rocambolesca: rimasto presto orfano di padre nell’ex Unione Sovietica, si trasferisce con la madre e la sorella prima a Vienna e poi a Roma in una situazione di indigenza che lo costringe a piccoli furti e truffe. A quindici anni la migrazione nella terra promessa del Canada, dove cresce, si laurea in fisica e in regia. «Anche io ho dovuto forgiare la mia nuova identità su una nuova lingua e in fondo l’ebraico, che io purtroppo non conosco, è di fatto una lingua nata a tavolino. Nel film il protagonista idea un vocabolario le cui parole sono coniate dai nomi delle vittime del campo: Gilles crea di fatto un gigantesco memoriale evocativo. Noi stessi nella sceneggiatura abbiamo copiato i nomi nei registri di Auschwitz e di Bergen-Belsen».Per il tipo di situazione avventurosa e grottesca in cui si caccia il protagonista, che sfiora in alcuni punti la commedia tragica, è immediato il paragone con La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. Ma il regista non lo apprezza ed è tranchant.
«Naturalmente l’ho visto, ma non mi è piaciuto e non ha niente a che fare con la mia pellicola». Ma poi ci ripensa e risponde: «I due film hanno in comune l’importanza del messaggio: perpetuare la memoria delle persone sterminate. In Lezioni di persiano le vittime possono rivivere attraverso uno stupido e disperato linguaggio». Classe 1963, Perelman è nato a Kiev: «La mia città è stata teatro della strage di Babij Jar, in cui nel 1941 furono sterminati più di 30mila ebrei. Non ne sapevo niente. Sapevo di essere ebreo, ma che cosa fosse l’Olocausto l’ho capito in Canada. La Storia è circolare e tende a ripetersi: non c’è nessuna garanzia che il nazismo non si ripresenti. Sicuramente non in Germania, e magari non prenderà più di mira gli ebrei. Ma nelle situazioni difficili, come nelle gravi crisi economiche, basta che un uomo o una donna, dotati di carisma, indichino, per esempio, nelle persone dai capelli rossi la causa di tutti i mali. L’indottrinamento raggiunge subdolamente le menti più deboli ed ecco che scatta la persecuzione, si ripete la Notte dei Cristalli o qualche invasato entra in una scuola e uccide tutti».
Nel 2007 Perelman aveva girato per l’appunto Davanti agli occhi con Uma Thurman, ispirato al tragico massacro della Columbine High School, avvenuto in Colorado nel 1999, ma il riscontro di pubblico e critica era stato scoraggiante. Contrariamente al suo film d’esordio del 2003, La casa di sabbia e nebbia, una pellicola piena di dolore e morte, per la quale i protagonisti, Ben Kingsley e Shohreh Aghdashloo, furono candidati all’Oscar. I carnefici di Lezioni di persiano non sono l’impersonificazione del Grande Male, ma sono percorsi da sentimenti mediocri, come invidie e gelosie, e a volte perfino da una venatura di compassione per le proprie vittime: «Mettere in rilievo la dimensione “umana” dei nazisti è per me in assoluto la parte più importante del film. Rappresentarli come robot, come accade spesso, non è utile, perché l’operazione fondamentale per lo spettatore è quella di specchiarsi e chiedersi: Se fossi stato al suo posto che cosa avrei fatto? Solo così scatta un senso di distacco e nasce l’esigenza di vigilare sulla parte nera di noi stessi». Lezioni di persiano poggia molto sull’intensa interpretazione di Nahuel Pérez Biscayart, attore argentino che già avevamo apprezzato nel 2017 nel ruolo di appassionato attivista di Act Up-Paris per la sensibilizzazione della campagna contro l’Aids in 120 battiti al minuto di Robert Campillo. La sua splendida dispersione, la sua corporalità emotiva sono pilastri fondamentali del film. «Ho scelto Nahuel anche se non sapeva una parola di tedesco. È il tramite perfetto di una lingua inventata: il suo fisico minuto e fortissimo restituisce il magistrale riscatto della vittima».