La giornata dell’infanzia nel cinema e l’intervista a Giorgio Diritti

Il 20 novembre del 1989 l’Onu approvò la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e da allora, in quella data, si celebra la giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Ci sono film bellissimi e dolenti su questo tema, dalle vette di Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini a I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut per arrivare a versioni contemporanee, come lo straziante Sister (2012) di Ursula Meier o il transgender Tomboy (2011) di Céline Sciamma.


Esiste poi la categoria film per bambini, che vanno dal format Disney (che, dopo aver inglobato la più plastica Pixar, ormai propone un prodotto psicologicamente studiato per essere letto su più livelli emotivi da spettatori di diverse età), al nitore onirico di Miyazaki, al sorprendente politically correct di Claude Barras, Vita di una zucchina (2016).

Un tempo il cinema, soprattutto quello di stampo neorealista, aveva molto interesse a fare luce sui più piccoli, forse perché istintivamente la società si chiedeva quali conseguenze avrebbero avuto le ferite della guerra sulle nuove generazioni che dovevano risollevare il Paese. Oggi, essendo l’adolescenza una condizione stabile negli adulti – come dimostra un film assai acuto e passato sotto silenzio, Young adult (2011) di Jason Reitman

– e l’Italia, di fatto, una gerontocrazia, i bambini sono indagati quasi solo nel loro estremismo, dai piccoli camorristi de La paranza dei bambini (2019) di Claudio Giovannesi, basato sull’omonimo libro di Saviano, ai nuovi mostri di Favolacce dei fratelli D’Innocenzo (2020). Un regista che ha sempre dimostrato un occhio non banale e non ideologico sul mondo dei ragazzi è Giorgio Diritti, fin dal suo primo film, Il vento fa il suo giro (2005): gli occhi diffidenti di una comunità chiusa su una famiglia che cerca l’Eden incontaminato in un paesino montano passa anche sulla pelle dei figli. Ne L’uomo che verrà (2009)

la strage nazifascista di Marzabotto è vista attraverso gli occhi della piccola Martina; Un giorno devi andare (2013) è lo sguardo di una donna (Jasmine Trinca) attorno al vuoto di un bambino perduto nella ragnatela delle favelas brasiliane, in cui l’infanzia ha come unico diritto quello di essere dimenticata. Nell’ultimo suo bel film, Volevo nascondermi (2020), dedicato alla figura del pittore Antonio Ligabue – per cui Elio Germano ha conquistato il premio come migliore attore alla scorsa Berlinale ed è in corsa ora per lo stesso riconoscimento agli Efa- Diritti vede il potenziamento dell’estro e dell’irregolarità dell’artista nell’abbandono durante l’infanzia da parte delle madri biologica e adottiva. E restituisce la marginalità cui è condannato il pittore anche attraverso la crudeltà dei bambini. Il 21 novembre (alle 18, online) sarà proiettato al Festival Visioni italiane (www.cinetecadibologna.it), Zoombie, un cortometraggio firmato dal regista bolognese, nato da un lavoro con i ragazzi del corso di sceneggiatura e regia per la Fondazione Fare Cinema di Marco Bellocchio a Bobbio. La protagonista è una bambina, Camilla (Greta Buttafava), che si prepara ai festeggiamenti di Halloween, nel culmine della separazione tra i suoi genitori. Tra un dolcetto e uno scherzetto avrà un’amara sorpresa. «Ho stimolato i ragazzi a raccontare le proprie esperienze personali per capire quali fossero le loro urgenze. Molti hanno parlato delle sofferenze legate ai traumi della separazione coniugale – spiega Diritti-. I codici familiari si sono modificati, i genitori si dimenticano di essere genitori e, a livello di coppia, diventano solo combattenti in una guerra di cui i bambini sono le armi. E sono dolori che si portano dentro tutta la vita, salvo che non trovino un bravo terapeuta o una persona che li salvi». Nel corto il padre e la madre di Camilla, nella loro incapacità di distinguere i ruoli, si trasformano in “morti viventi”. Ma il problema è forse ancora a monte rispetto ai genitori: «I tempi sono esageratamente stressati, la necessità economica porta madri e padri fuori casa, e in una condizione di stanchezza le fragilità diventano crisi». Forse pesa anche una società sempre più virtuale, che richiede ubiquità e una continua frammentazione di attenzione. «La dimensione del dover apparire ed essere di fronte a certi parametri irraggiungibili, crea un senso di frustrazione che si riversa contro il partner o contro i figli. Il paradosso del Covid è di aver favorito una riqualificazione dei tempi naturali nei rapporti con la prole. I figli si sono sentiti un po’ più in famiglia». Cambiano i genitori, ma cambiano anche i ragazzi. Quale è il loro modo di pensare il cinema? «C’è una forte contaminazione con la pubblicità e le clip, per cui spesso arrivano dei lavori esteticamente perfetti, patinati, ma senza drammaturgia. I giovani puntano sul ritmo, l’inquadratura strana, o l’uso di un drone, ma non sanno spiegare quale punto di vista rappresenti nell’economia del racconto. Forse sono mancate loro le persone che raccontavano le favole quando erano piccoli». E il cerchio si chiude. O meglio, non si chiude affatto.