Seduta nel carro funebre accanto al corpo senza vita del marito, Jacqueline Lee Bouvier Kennedy (Natalie Portman) chiede all’autista se conosce James Garfield e William McKinley, ma non ottiene risposta. Fino a poche ore prima erano tre i presidenti degli Stati Uniti morti assassinati: oltre a Garfield e McKinley, Abraham Lincoln, che l’autista ricorda per aver liberato il Paese dalla schiavitù. Ora a quella maledetta terna si aggiungeva anche John Fitzgerald Kennedy, colpito a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 mentre sfilava a bordo della berlina per salutare la gente venuta a rendergli omaggio. Quale dei presidenti uccisi in un attentato è ricordato per il suo sacrificio? Di questo si preoccupa la protagonista di Jackie di Pablo Larraín, nella sale dal 23 febbraio. Su di lei grava la responsabilità della memoria del marito, che ha visto accasciarsi sulle sue ginocchia, raggiunto da due pallottole, una al collo e una alla testa.
«Ci è stata restituita di lei un’immagine superficiale, di una donna preoccupata solo dell’arredamento e della moda», spiega il regista che nel film racconta anche i retroscena dell’intervista televisiva in cui la first lady mostrava all’America una Casa Bianca riammodernata, pronta per una mondanità astuta e civettuola. «Ma se scavi un minimo appare una persona brillante, con un fiuto politico incredibile, che parla fluentemente quattro lingue, istruita e diplomatica». L’omicidio Kennedy ha affascinato registi sotto prospettive molto diverse. Oliver Stone in JFK – Un caso ancora aperto (1991) si è cimentato nell’esporre i fatti immediatamente precedenti all’attentato,
mentre Peter Landesman in Parkland (2013) è sceso al pronto soccorso che tentò di rianimare il presidente. Jackie posa lo sguardo sui non detti di una donna addolorata e con una fede in crisi, che tutela il futuro di se stessa e dei due piccoli figli, dopo aver tessuto nell’ombra il mito dei Kennedy e ingoiato umiliazioni come spalla di un uomo che aveva ispirato Marilyn Monroe in una celeberrima interpretazione di “happy birthday”. Il regista cileno, appena quarantenne, finora ha raccontato l’America Latina in una parabola di film spietati con il sodalizio del suo attore feticcio Alfredo Castro (Tony Manero, 2008;
Post mortem, 2010; Il club 2015, Neruda 2016). Con Jackie si inoltra in un terreno nuovo, ma non per questo scivola. Anzi. Dimostra di stare al passo con una grande produzione che ha visto impegnato, tra gli altri, anche Darren Aronofsky e di aver l’abilità di affrontare diversi registri, mescolati a tecniche a lui note, come l’utilizzo di un “falso” found footage, girato con la stessa vecchia macchina da presa utilizzata per No – I giorni dell’arcobaleno (2012). Nel patriottismo a stelle e strisce, nell’uso dei media, nella spietatezza della democrazia che chiede un avvicendamento immediato – c’è una scena in cui Lyndon B. Johnson e la moglie gioiscono dell’investitura, mentre Jackie è accanto a loro con l’abito ancora insanguinato – sembra emergere un’America fredda e cinica. Giudizio che il regista respinge con forza. «L’avvicendamento è avvenuto nel pieno rispetto delle regole: secondo la legge il vicepresidente deve entrare in carica nel momento in cui viene a mancare il titolare, anche se Johnson si preparava a esserlo a prescindere da quell’evento nefasto e imprevedibile. Stiamo parlando di politica interna e non dell’interventismo degli Stati Uniti in altri Paesi. Ci sarebbe naturalmente da fare dei ragionamenti in proposito, ci sono film potenziali che mi piacerebbe girare in materia, ma Jackie è una riflessione su una donna e sulla sua battaglia. La trama si focalizza su come si rapporta all’eredità di Kennedy, di come la proteggeva, trasformando lui e se stessa in un’icona. Se mi si chiede un giudizio sull’invasione della Baia dei Porci a Cuba – il tentativo di rovesciamento di Fidel Castro messo in atto nel 1961 con la regia della Cia, lanciata a tre mesi dall’insediamento di Kennedy n.d.r. -, posso dire che personalmente io non l’avrei autorizzata. Ho girato sette film e cinque prendono in considerazione processi storici ben precisi. Ho capito che non si può veramente tornare indietro nel tempo e pensare a quello che hanno pensato o provare quello che hanno provato i protagonisti. Si può fare un tentativo. Ma allora c’era la guerra fredda e posso solo immaginare come si sentivano e come reagivano. Kennedy è stato un uomo che ha veramente lottato per i diritti civili, dando inizio a un’epoca. La sua politica è un soggetto molto complicato di cui mi piacerebbe parlare, ma non credo sia il momento giusto». Per ora Larraín ci consegna una donna enigmatica che indossa i tailleur di Chanel con un’eleganza indiscussa e nello stesso tempo si trasforma in un condottiero consumato che a soli 34 anni usa la stampa per instradare la Storia su binari calcolati. Una stratega, che pur nella disperazione del lutto, ha sette giorni per consegnare il “corpo del capo” al suo popolo e aprire un varco alla leggenda. Larraín ha potuto contare sull’eccezionale interpretazione di Natalie Portman, giustamente candidata ai prossimi Oscar del 26 febbraio come migliore attrice protagonista – il film è in gara anche per la colonna sonora di Mica Levi e i costumi di Madeline Fontaine – e la sceneggiatura oliatissima di Noah Oppenheim, premiata a Venezia, anche se la pellicola al Lido avrebbe meritato molto di più, perché Jackie è un film riuscito sulla solitudine, sulla perdita, sulla caparbietà e sull’ambizione di una regina in un Paese senza monarchia.
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