Paterson è un film caparbio, come tutti coloro che si ostinano a parlare di poesia in un mondo che tenta di metterla all’angolo. E caparbio è il suo protagonista, Paterson (Adam Driver), che vive a Paterson, nel New Jersey e dà il titolo al quindicesimo lungometraggio di Jim Jarmusch. Paterson fa l’autista di autobus e ogni giorno compie lo stesso tragitto verso il lavoro e sulla sua linea, cinque giorni su sette, senza che la routinarietà corroda la bellezza di ciò che vede intorno. Si sveglia nel letto di una piccola casa, che sembra disegnata dai bambini, accanto alla moglie, Laura (Golshifteh Farahani), che ne ingombra le pareti con la sua inquieta creatività. Un giorno dipinge le tende, il giorno dopo gli infissi, quello dopo ancora le tovagliette su cui il marito mangia i cereali la mattina. O cucina dolcetti su cui disegna linee curve o spezzate, bianche su sfondo nero o viceversa, come se nel salotto di casa fosse entrato Escher a spargere le sue illusioni. Paterson la osserva con lo sbigottimento di chi si ostina a dire le cose sottovoce: l’amore, la gioia e perfino la rabbia. Gli è estranea l’irruenza di Laura, ma la rispetta, la guarda con tenerezza, la ama ed è contraccambiato.
Lui sfoga la creatività scrivendo poesie, in silenzio, prima di scaldare il motore dell’autobus, oppure nello scantinato di casa, dove conserva i versi del suo mentore, William Carlos Williams. Anche lui ha vissuto nella città del New Jersey, come Allen Ginsberg, Lou Costello e l’anarchico italiano Gaetano Bresci. Paterson ascolta le chiacchiere dei passeggeri: bambini che parlano del pugile Rubin “Hurricane” Carter, due ragazzi che si confessano conquiste andate a vuoto per stanchezza o imbarazzo. Sono parole che si trasformano in immagini e gli scivolano dentro per mettersi a fuoco spesso davanti a una cascata, il suo posto del cuore in città. Allora, senza rime, descrive una scatola di fiammiferi la cui marca è disegnata come un megafono, le spazzole del tergicristallo che scricchiolano, un bambino con un impermeabile giallo che stringe la mano della madre. Son versi che non ha fatto leggere a nessuno, se non alla moglie, che vorrebbe che «appartenessero al mondo». Paterson ci scherza sopra, non vuole la fama, vuol solo far risuonare la loro magia dentro di sé. È un flusso che rimane miracolosamente intatto, nonostante venga interrotto di continuo, dal capo che si lamenta per il diabete del gatto e per la suocera in casa; da Laura che chiede una chitarra, rincorrendo un’infatuazione che con gran probabilità il giorno dopo svanirà; dal bulldog Marvin, coinquilino geloso e dispettoso, che in segreto fa inclinare ogni giorno la cassetta della posta. Paterson osserva queste piccole noie della vita, dispiacendosi del male che provocano, ma senza farsi distrarre dal suo limbo poetico, perché lui «passa attraverso/trilioni di molecole/che si fanno da parte/per lasciar passare me/mentre su entrambi i lati/altri trilioni/restano dove sono». Qui intreccia sogni e coincidenze, come in un percorso psicanalitico (è una coincidenza che un attore che si chiama Driver impersoni un autista?). Laura sogna di partorire due gemelli e da allora Paterson non fa che incontrarne: due signori incanutiti su un muretto, due piccole che attraversano la strada, due vecchiette impaurite, due giovani che giocano a biliardo, due ragazzine di cui una è una poetessa. Una sera si concedono un vecchio film dell’orrore, rigorosamente in bianco e nero, e l’attrice è identica a Laura. Paterson registra queste sincronie senza gridarle. Non ama i sensazionalismi. Ride quando lo salutano come un eroe perché l’autobus ha un guasto elettrico e si sarebbe potuto trasformare in una “palla di fuoco”. Non vuole il cellulare, vuole solo bere una birra nel bar del suo amico. Qui gli capita di dover fermare un tentato omicidio-suicidio, ma ne esce con un candore immutato. Solo quando gli accade di perdere i fogli dove ha preso forma la sua ispirazione vacilla: dubita della sua identità “per quello che non ha più”. Ma è un attimo. A ricordargli che è un poeta è l’incontro fortuito con un giapponese, su una panchina davanti alla cascata. Un omaggio del regista alla cultura nipponica, cui aveva già dedicato Ghost dog (1999), un noir ispirato all’Hagakure, distillato di saggezza Samurai in aforismi.
Jarmusch rispecchia il minimalismo della sceneggiatura nelle inquadrature fisse, “pulite”, come il bicchiere di birra, ripreso dall’alto, che rimanda alle elucubrazioni sopra la tazzina di caffè in Due o tre cose che so di lei di Jean-Luc Godard.
Ricorda Paterson alcune pellicole di Tim Burton senza però gli aloni macabri. Nell’alienata dolcezza di Edward Mani di forbice (1990), o nello stupore continuo di Big fish (2003).
Solo che per Jarmusch i fatti strabilianti sono le piccole cose di ogni giorno perché Paterson è una favola gentile per adulti.
O meglio, per adulti gentili.
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