Il genio, l’insicurezza e il fiele di un artista che Hollywood abbandonò nel libro a cura di Peter Biskin
Cristina Battocletti
«Credo a tutte le cose cattive che leggo su di me. Anche se le rifiuto, mi rimangono in testa e penso che probabilmente sono vere. Quindi mi proteggo leggendo il meno che posso. Per vigliaccheria». Dopo decine di giudizi ingenerosi, sparate politically uncorrect, sfregi al fiele, Orson Welles confessa la sua fragilità di uomo abbandonato da Hollywood, masticata tra un’insalata di granchio e di pollo, dimentico del registratore che l’amico e regista Henry Jaglom si piazzava in borsa con tacito accordo tra i due mentre pranzavano al ristorante Ma Maison di Los Angeles tra il 1983 e il 1985. Quelle chiacchierate sono ricostruite in A pranzo con Orson, grazie alla pazienza del critico e storico del cinema Peter Biskind, in mezzo a frasi spesso frammentarie per il rumore del locale (il registratore era relegato nella borsa di Jaglom) e le cilecche della memoria di Orson (von Stemberg invece di von Stroheim, per esempio). E grazie all’incalzare di Jaglom su film, produzioni, registi, attori e politica, con cui “estorceva” all’amico un mosaico di storia del cinema alla Welles.
Jaglom era una persona di fiducia di “big Orson”, si prodigò per ricostruirgli una credibilità finanziaria, irrimediabilmente perduta agli occhi delle major per la sua connaturata iconoclastia e per i troppi progetti non portati a termine con fondi presto finiti. Nonostante cinematograficamente «tutti gli dovremo sempre tutto», come sintetizzò Jean-Luc Godard, e nonostante il genio, riconosciuto anche dai suoi detrattori (l’attore, produttore, sceneggiatore John Houseman in cima alla lista), che lo portò sulla copertina del «Times» il 9 maggio del 1938, tre giorni dopo aver compiuto 23 anni.A un secolo dalla sua nascita (6 maggio 1915) e trenta dalla sua morte (10 ottobre 1985) le conversazioni tra i due registi spaziano a ruota libera, dall’aneddotica sui personaggi, alle speranze crescenti e poi deluse su finanziamenti ventilati e mai arrivati, soprattutto Re Lear da vendere ai francesi, e I sognatori, ispirato a due racconti di Karen Blixen. Ai ricordi dei fasti, molti legati a Quarto potere (1941), che diresse e interpretò come protagonista, con diritto di final cut. Un privilegio che gli costò l’invidia del mondo del cinema, oltre all’ostilità – per dirla con un eufemismo – del magnate della carta stampata, William Randolph Hearst, alla cui figura la pellicola era ispirata. Prima ancora che uscisse nelle sale la giornalista Louella Parsons fece entrare a una proiezione privata uno degli avvocati Hearst, che impedì l’uscita del film nei grossi circuiti, contribuendo a far naufragare gli incassi.
Con Houseman che soffiava sul fuoco, sostenendo che la sceneggiatura di Quarto potere fosse tutta farina del sacco di Joseph Leo Mankiewicz.Alla sola citazione di quell’insinuazione, Welles si infuriava e rafforzava il livore per le occasioni mancate – essersi fatto soffiare Lo zoo di Vetro di Tennessee Williams da Elia Kazan -, per quell’odioso di Spencer Tracy, per quello scorretto di Charlie Chaplin, che al confronto di Buster Keaton era nulla, per Marlon Brando ed Elizabeth Taylor, perché non avevano il collo, proprio come i bosniaci. «Non credo nell’uguaglianza delle razze» provocava. E giù contro gli irlandesi: «carogne»; contro Peter Bogdanovich, un vanesio «innamorato di se stesso, innamorato di Dorothy Stratten»; contro Selznick «un rompicoglioni», contro Bogart «un vigliacco», moderatamente contro Gable «poco intelligente, ma simpatico», al contrario della sua acuta compagna Carole Lombard. E ancora borbottava sugli amorazzi che gli attribuivano, oltre alle tre mogli: Virginia Nicholson, Rita Hayworth e Paola Mori. Ricordava con struggimento la tenerezza della Hayworth, che aveva la statura della diva ma poi era divorata dall’insicurezza e dalla depressione. Nessun accenno alla compagna Oja Kodar, ma stima e rispetto per Lena Horne, fiera e combattiva prima star cinematografica nera che rifiutò di esibirsi per le truppe durante la guerra perché i militari di colore americani dovevano sedere dietro i prigionieri di guerra tedeschi. È sui nastri anche l’ipocondria che un giorno gli impedì di baciare sulle guance Jaglom temendo di prendere l’Aids, anche se nessuno dei due peraltro lo aveva contratto. Feroce con gli altri, ma soprattutto con se stesso, autodistruttivo, le sue idee erano come «bolle di sapone che scoppiavano una volta arrivate alla superficie». Quando nel 1984 il finanziatore principale della versione cinematografica di The cradle will rock si ritirò facendo tracollare il progetto, sbottò: «Sono quarant’anni che mi nascondo un segreto – a me stesso, non agli altri: odio il mondo del cinema». Ma il giorno in cui lo stroncò un infarto fu trovato con la macchina da scrivere in mano mentre stendeva l’ennesima sceneggiatura.
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A cura di Peter Biskin, A pranzo con Orson Welles, conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, Adelphi, Milano, pagg. 340,
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