Il veleno nascosto nella tana del lupo
Le assaggiatrici. Il bel film di Soldini, tratto dal bestseller di Postorino, racconta
la storia di sette donne costrette a fare da cavie alla mensa del Führer. Recitato
in tedesco, il cast, la scenografia, i costumi eccellenti lo rendono autentico
Nel cinema di Silvio Soldini c’è una radice asciutta (anche nelle commedie) che gli permette di affrontare temi delicati con l’onestà e il rispetto che lo rendono un regista speciale. Ne Le assaggiatrici Soldini parte da una storia unica, pericolosamente innestata su un tema abusato sul grande schermo come il nazismo, e ne esce con una stella in più. Il film è tratto dall’omonimo best seller di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018), che trasforma in romanzo la rivelazione di una donna tedesca, Margot Wölk, che, poco prima di morire nel 2012, a 95 anni, aveva raccontato di essere stata per due anni una delle cavie obbligate ad assaggiare il cibo cucinato per Hitler.
Soldini ne Le assaggiatrici mette la sobrietà e l’accuratezza con cui aveva girato Brucio nel vento (2002), tratto da Ieri di Ágota Kristóf, romanzo pieno di freddo e solitudine. Soldini ha reso sul grande schermo la penna rastremata e dolorosissima dell’autrice ungherese attraverso la scarnificazione di luoghi e situazioni, con una luce senile in cui possono prendere vita gli incubi dell’inconscio, attraverso l’uso della lingua madre, il ceco, con un naturalismo e un verismo che, invece di essere scabroso, rivela una grande tenerezza verso i suoi protagonisti.
Anche ne Le assaggiatrici Soldini preserva la lingua madre delle protagoniste, il tedesco, sebbene il romanzo da cui nasce il film sia di un’autrice italiana. Nella maggior parte delle sale in Italia uscirà in versione doppiata, ma in quella originale si avverte lo scrupolo filologico sincero, essendo il romanzo ambientato in Germania. Tedesche, dunque, sono le attrici e i dialoghi con la sacrosanta voglia di liberare il cinema dai confini.
È l’autunno del 1943. Una giovane donna arriva in un villaggio rurale e sviene per la stanchezza e la fame. Si chiama Rose, è fuggita da una Berlino bersagliata dai bombardamenti e si rifugia in campagna a casa dei genitori del marito Gregor, che ha visto solo due volte in quattro anni di matrimonio per brevi licenze. Gregor è soldato in guerra e scrive ormai sempre più raramente. Accanto al villaggio dove Rose vive, si dice ci sia la Tana del Lupo, il bunker dove si è trincerato Hitler.
La sensibilissima mano di Soldini rappresenta la nuova condizione di Rose riprendendo prima la cura estetica che la giovane donna mette sin nell’acconciatura abilmente puntata secondo l’eleganza del tempo e poi mostra in primo piano le mani nodose della suocera. «Questi, qui, non ti serviranno», dice la suocera alla nuora, mentre Soldini inquadra i vestiti che Rose ha portato dalla capitale: la cultura contadina versus quella metropolitana, la diffidenza, il senso di inferiorità.
Il cast, che il regista ha scelto a Berlino assieme a Laura Muccino, risponde a un criterio di credibilità che rende il film autentico. Per questo le attrici, tutte bravissime, e in particolare Elisa Schlott (ma anche i suoceri Jürgen Winke e Esther Gemsch), imprimono verità e solidità al film. Soldini ha un gran fiuto per gli interpreti: è merito suo aver imposto la freschezza attoriale sorniona, allegra e profonda di un giovane Beppe Battiston, appena 25enne, fresco di accademia Paolo Grassi, in Un’anima divisa in due (1993). Un sodalizio seguito poi da una lunga unione filmica.
A un certo punto, Rose viene prelevata da soldati con la divisa da SS e portata in un luogo segreto assieme a sei coetanee: Elfriede (Alma Hasun), Leni (Emma Falck), Heike (Olga von Luckwald), Augustine (Thea Rasche), Ulla (Berit Vander) e Sabine (Kriemhild Hamann). Il loro compito è assaggiare ciò che cucina il cuoco del Führer per accertarsi che nessuno abbia avvelenato il cibo. Soldini ci fa sentire la paura e la solitudine della guerra, uno spettro non lontano dalle nostre preoccupazioni. Ci mostra persone al servizio di una causa, in cui la maggior parte di loro non crede. E nello stesso tempo, tesse una trama di fratellanza, di competizione e di invidia di un gruppo forzato a vivere insieme. Accanto, la natura e l’uomo consentono piccole estasi: il vento negli alberi, i centrini di pizzo in una casa sguarnita, la luce di una torcia che racconta il desiderio. Nella sua filmografia (non sempre riuscita) Soldini – a partire dal film di maggiore successo (ma non il più bello), Pane e tulipani (2000) –, ha dimostrato di saper entrare nella psicologia delle donne, nella voglia di liberarsi dagli schemi imposti, molto prima che questo diventasse di moda. Ma non per questo nelle Assaggiatrici innesta valori femministi di oggi in un tempo in cui non potevano fiorire. Al massimo c’è il coraggio istintivo, quello della protagonista. Per il resto, regna l’arte della sopravvivenza. Deprivati da anni di guerra, tutti sono tesi a salvare la propria pelle, cedendo a meschinerie. Si ostinano a rimanere fedeli alla Germania nazista, per non rassegnarsi a volersi sconfitti. Magnificamente coerenti i costumi di Esmé Sciaroni e Marina Roberti, la scenografia di Paola Bizzarri e la fotografia di Renato Berta, quasi bagnata e spenta. Infine, il montaggio di Carlotta Cristiani e Giorgio Garini che amalgama tutto, rendendo il fluire delle stagioni e la natura che cambia.
L’unico punto debole del film è non tanto la storia d’amore tra il nazista e una delle assaggiatrici, pleonastica rispetto all’eccezionalità della vicenda, quanto l’atto di eroismo macchinoso che si innesta alla fine con una deriva retorica da cui Soldini si era fino a quel momento tenuto lontano. Questo non toglie nulla al valore di tre quarti di una pellicola sorprendente, che riporta alla mente La zona di interesse.
SSSSS
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