Berlinale ’72: la carica di Ozon e delle nuove leve

Berlinale ’72. Bell’inizio con «Peter von Kant» e l’omaggio a Fassbinder in una rassegna con molte giovani regie internazionali al femminile: la più audace quella di Natalia López Gallardo

Con François Ozon si sbaglia raramente. Così hanno fatto bene Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian ad aprire la 72esima edizione – coraggiosamente in presenza, seppure ridotta in termini di durata e piuttosto sguarnita di star -, con Peter von Kant, ultima pellicola del prolifico regista francese, capace di giocare abilmente con le soglie e con i generi.


A Berlino la pandemia ancora morde, i controlli (nella zona del festival) sono stretti e inflessibili, benché assai poca gente spasimi attorno alla macchina dei lustrini: così ci voleva un film esteticamente piacevolissimo e ironico per rompere il ghiaccio, nonostante non tutta la critica abbia apprezzato la “manipolazione” della pellicola di culto di Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant del 1972. Ozon ne ha ricalcato la trama, rovesciandola in versione maschile, con un meraviglioso protagonista, Denis Ménochet, molto fassbinderiano, all’altezza delle apparizioni di Isabelle Adjani e di Hanna Schygulla, che qui è la madre del protagonista, mentre nella versione “originale” era la capricciosa aguzzina Karin. Ozon tocca sempre i temi a lui cari: i rapporti di potere nelle relazioni sentimentali, il sadismo, il masochismo, il sesso freudianamente interpretato come chiave della realtà, con punte di umorismo e un set feticista anni Settanta, degno delle ricostruzioni di Wes Anderson.
Poi è arrivata la solita frustata di Ulrich Seidl, con Rimini, come di consueto urticante, ma sempre con qualcosa da dire. Non a caso il regista è nato in Austria, Paese in cui si sono originati molti incubi europei, portati a galla dai suoi figli, da Musil a Roth, senza voler fare paragoni impropri con Seidl. Che però nella trilogia di Paradise (2012), in In the basement (2014) e in Safari (2016) ci ha detto molto delle nostre vergogne occidentali. Oggi il suo eroe, Richie Bravo (Michael Thomas), un cantante neo melodico tedesco (se questa definizione può stare in piedi) trasferitosi nella disneyland della riviera romagnola in inverno, diventa l’epigono di un continente anziano, egoista, squallidamente votato al kitch. Film eccessivo e paradossale, però interessante.
Come lo è Robe of gems della giovane regista messicano-boliviana Natalia López Gallardo, al suo esordio nel lungometraggio dopo essere stata montatrice nella scuderia di “grandi” messicani come Carlos Reygadas e Amat Escalante. Come i suoi maestri, López Gallardo sa reggere una regia “sporca” e ipnotica, raccontando la storia di tre donne, una borghese bianca, un’indigena travolta dalla povertà e una poliziotta, legate dalla scomparsa. Il mistero, che inizialmente tiene avvinghiati, sembra però non saper bene dove andare a parare, giocando sul binario un po’ abusato della disparità sociale e su una figura alla Fargo in chiave latino americana. Ma l’atmosfera di suspense potrebbe piacere al presidente di giuria, M. Night Shyamalan, e inoltre López Gallardo, con i suoi 42 anni, è un’ottima candidata per un palmares giovane e femminile, anche se Berlino il problema della parità di genere l’ha superato ospitando un numero di registe molto più alto delle altre rassegne. Delude purtroppo Ursula Meier con The line, versione furba e pop di Sister (2012). E questo è imperdonabile per chi ha amato quella pellicola, credendola figlia dell’urgenza. In The line, il meccanismo dell’infanzia funestata da una madre snaturata, ma non cattiva, diventa uno schema senza verità, con l’aggravante di usare Valeria Bruni Tedeschi in chiave di noblesse isterica, legandola a un cliché da cui qualcuno dovrebbe liberarla. Claire Denis con Both sides of the blade ha girato una specie di carnage a trois, basato sulla eccellente professionalità di Juliette Binoche (Vincent Lindon vicino a lei un po’ scompare). Il film è praticamente un tributo a questa attrice feticcio (L’amore secondo Isabelle, 2017, High life, 2018), che rimane bella e intensa come ai tempi di Kieślowski. L’intreccio e i dialoghi sono però un po’ cervellotici, artificiosamente politically correct e bobo. Un ragazzo di oggi ne può essere sinceramente attratto? Di difficile digestione anche Everything will be all right di Rithy Panh, maestro cambogiano del documentario, che molto ha contribuito a svelare il genocidio del suo popolo. Si tratta di una specie di “testamento di verità” sulla crudeltà umana, accompagnato da una voce narrante francese su un tappeto di versi di animali. Si ripercorrono le dittature del Novecento, Mao, Stalin, Lenin, Hitler, fucilazioni, lager, la ferocia verso gli animali, con omaggi a Fritz Lang, Méliès, Ėjzenštejn. Lo schermo spesso diviso in sei o quattro quadrati, riprende animali e uomini riprodotti in figurine di argilla. Panh ammonisce gli uomini dal cattivo uso della scienza, arrivando, ma chi scrive spera di sbagliarsi, alla deriva no-vax. Di tutt’altro tenore Nana dell’indonesiana Kamila Andini che parla ancora della condizione femminile alla fine degli anni Sessanta a Giacarta: i traumi della guerra, il maschilismo e il patriarcalismo.

Bella fotografia, non male la storia, se non balenasse continuamente lo spettro di In the mood for love di Wong Kar-Wai.
Infine, dei nostri per ora è arrivato solo Dario Argento con Occhiali neri al Berlinale Special Gala. Un giallo, come precisa lo stesso maestro del thriller, che mischia sensualità e paura con un giro di squillo romane, inseguite da un killer che guida un furgone bianco. Il mix erotico si intreccia con l’handicap, quando la protagonista, Ilenia Pastorelli, per un incidente diventa cieca. Lo splatter è assicurato con tanto di morsi canini e anche certa comicità involontaria, dovuta alla simpatia immediata della Pastorelli e a certi inciampi di sceneggiatura, come quando nella predominanaza della parlata romanesca il killer nordico, nel momento di massimo accanimento, tira fuori un congiuntivo che neanche Manzoni se lo sarebbe sognato. In tutto questo brontolare balugina però molta luce. Mancano diversi film in concorso e soprattutto c’è la gratitudine per aver dato di nuovo l’abbrivio al cinema, in un momento in cui nessuno voleva “dare in pasto” i propri film con le sale deserte per il virus. Bravi e intrepidi, registi e organizzatori.
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Cristina Battocletti