Venezia ’75: Vince «Roma», il migliore. Nonostante la distribuzione di Netflix e il chiacchiericcio su presunti conflitti di interesse, ha vinto la pellicola più bella, quella di Alfonso Cuarón

Il Leone non ha avuto paura nemmeno quest’anno: ha vinto il film più bello della rassegna, Roma, nonostante il viperino chiacchiericcio su presunti conflitti di interesse per la nazionalità condivisa tra il regista messicano Alfonso Cuarón, e il presidente della giuria, Guillermo del Toro; oltre che per la distribuzione della pellicola da parte di Netflix.

Infatti, di fronte alla commovente universalità della piccola tragedia familiare autobiografica, non ha retto la polemica sull’opportunità di ammettere in gara alla Mostra la piattaforma streaming, accusata di genocidio delle sale. Coinvolta anche in altri due film del concorso (The ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen e 22 luglio di Paul Greengrass), Netflix, assieme ad Amazon (produttrice, tra gli altri, di Peterloo del maestro Mike Leigh, rimasto a mani vuote), cambierà sicuramente il nostro modo di usufruire del cinema. Andare contro a Netflix & Co in questo momento è “antistorico”, come ha detto il direttore della Mostra del cinema, Alberto Barbera, una battaglia dalle armi spuntate. I piccoli e coraggiosi esercenti dovranno attivare una speciale e alternativa resilienza per ingrossare le fila dei cinefili.
Roma racconta la tempesta all’interno di una famiglia borghese, che vive nel quartiere omonimo di Città del Messico negli anni Settanta: il padre lascia moglie e quattro figli (uno di loro è il regista) per rifarsi una vita con un’altra donna, mentre la domestica di origine mixteca, Cleo (Yaritza Aparicio), sorta di madre supplettiva cui Cuarón ha dedicato la vittoria, viene abbandonata dal fidanzato che l’ha messa incinta. Il loro dolore, rispetto ai gorghi della rivoluzione sociale e alle sanguinose lotte tra governo e studenti, è paragonabile alla piccineria di una pozzanghera d’acqua, immagine con cui inizia il film. Ma il bianco e nero di Cuarón è capace di rendere eterna e irripetibile sia la sofferenza che l’alone fiabesco dell’esistenza, con una particolare tenerezza verso la dignità dell’universo femminile.
Il Leone d’argento gran premio della giuria è stato attribuito a La favorita di Yorgos Lanthimos, cui va anche la coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile (assegnata a Olivia Colman per la parte di Anna, regina ingorda e squilibrata). Il regista greco ha girato un film in costume (lo sono diverse opere in concorso, il già citato Peterloo, The Nightingale di Jennifer Kent, Capri-Revolution di Mario Martone, il trascurabile Napszálta di László Nemes, il guerresco esistenziale Zan di Shinya Tsukamoto), ambientato in Inghilterra nel XVIII secolo, ravvivando le trame di corte con carrellate e grand’angoli. Tra la regina e la sua preferita, Rachel Weisz (già protagonista di The Lobster, 2015), di fatto regnante effettiva, si insinua l’aristocratica decaduta Abigail (Emma Stone), che trasforma il loro rapporto in guerra psicologica. Divertente, cinico e mai banale, La favorita è capace di restituire la contraddittorietà umana, tra lampi di pazzia e lucidità, vigliaccheria e privilegi nobiliari in un Paese in ginocchio per la guerra. Anni luce dal pretenzioso precedente Il sacrificio del cervo sacro (2017).
Una doppia premiazione eccessiva, vista la mancata presenza nel palmares di Doubles Vies di Olivier Assayas, che avrebbe meritato un riconoscimento per la sceneggiatura tesissima sul narcisismo dei tempi attuali, le contraddizioni della globalizzazione e la democrazia vera o presunta di internet. Che invece è andato ai fratelli Coen, i quali, nella loro scanzonata derisione dei festival (cui però partecipano), non si sono scomodati a riattraversare l’oceano. A ritirare il premio hanno mandato Tim Blake Nelson, protagonista del migliore dei sei episodi western in cui si struttura il film. Con pistoleri canterini, cercatori d’oro, attori di spettacoli itineranti, The ballad of Buster Scruggs non è la migliore pellicola dei Coen, ma immagini e risate di qualità sono assicurate.
Sul palco non si è presentato nemmeno Jacques Audiard, benché vincitore del ben più importante Leone Argento per la regia, fatto che in sala ha creato un po’ di mestizia. Audiard, come i Coen, ha girato una ballata western, ma di sapore europeo, The Sisters Brothers, con John Reilly e Joaquin Phoenix. Conquista il sarcasmo tragicomico di questa coppia di mammoni, killer per mestiere e per piacere.
Willem Dafoe è una meritata Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Più volte candidato agli Oscar e ai Golden Globe, finalmente gli viene attribuito un riconoscimento degno dei personaggi cui si è sovrapposto in maniera quasi millimetrica, come il Cristo, visto sempre al Lido, di Martin Scorsese de L’ultima tentazione (1988), o il poeta emaciato, tenero e geniale in Pasolini di Abel Ferrara (2014). In At eternity’s Gate di Julian Schnabel è Vincent van Gogh, in preda alle turbe della natura che rappresenta nelle sue tele, alle scariche quasi animali che lo portano a gelosia, fame, isolamento. Quello di Schnabel è il film di un pittore su un pittore – lo aveva fatto anche nel suo esordio da regista per Basquiat nel 1996 -, con una macchina da presa coerente, anche in certa melodrammaticità, al movimento impresso nei quadri di van Gogh stesso.
Peccato anche per uno dei film più innovativi del festival, Il nostro tempo, del messicano Carlos Reygadas, pieno di poesia quotidiana (sarà un fattore nazionale?) sulla crisi di una coppia in cui l’ego di un poeta, interpretato dallo stesso Reygadas, nei confronti della moglie (anche nella realtà), Natalia López, si confonde con la potenza dei tori allevati nel suo ranch, la vita parallela e istintuale dei bambini, l’assolutezza dei paesaggi. La lettera di lei letta durante una lunga panoramica su un immenso altipiano metropolitano è una delle scene più toccanti di questa Mostra. Forse è prevalsa una questione di opportunità, vista la comune provenienza geografica con il vincitore del Leone d’Oro e il presidente della giuria.
A mani vuote i nostri: l’elegante remake dell’horror di Dario Argento, Suspiria, di Luca Guadagnino, l’indagine documentaria di Roberto Minervini sulle sacche di povertà e di degrado nel Sud degli Stati Uniti, Che fare quando il mondo è in fiamme?, e la riflessione tra utopia, politica, interventismo e mondo contadino alle soglie della Prima guerra mondiale di Capri-Revolution di Mario Martone. L’indubbia capacità registica dei tre si è forse scontrata con storie altrettanto forti, più vicine al gusto della giuria.
Doppio premio, speciale per la giuria e Premio Mastroianni come migliore attore emergente (all’aborigeno Baykali Ganambarr) a The Nightingale di Jennifer Kent, unico film femminile in gara. Ambientato in Tasmania nel 1820, racconta la rivincita nei confronti di un capitano della guardia britannica da parte di una galeotta irlandese, Clare, vittima di delitti ignominiosi – l’uccisione del marito e della figlia, lo stupro di lei stessa –, dettati dal bisogno di dominio del capitano, invaghitosi di lei. Il risultato però è gratuitamente truculento, forse retaggio del suo precedente film horror di culto, Babadook (2014). Consola il fatto che il premio può trasformarsi in un (parziale) risarcimento per l’irripetibile insulto, volgare e sessista, alla fine della proiezione nei confronti della regista. Tuttavia, davvero non vi era pellicola a firma femminile , oltre a quella di Kent, degna di concorso?
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