L’arte di uccidere, o Uccidere per arte potrebbero essere questi i sottotitoli di The house that Jack built di Lars von Trier, fuori concorso alla 71esima edizione del Festival del cinema di Cannes.
Il protagonista è un grandissimo Matt Dillon nei panni di Jack, un ingegnere americano con l’ambizione repressa dell’architettura, che von Trier segue per dodici anni a partire dagli anni Settanta in cui l’ingegnere cerca di costruire una casa sulle rive di un lago. Ma soprattutto Jack imbastisce una solida carriera da serial killer, che il regista danese spiega in cinque capitoli, ribattezzandoli “incidenti”. Il primo “incidente” è incarnato da una molestissima Uma Thurman (con von Trier già in Ninphomaniac del 2013), ferma su una strada di montagna che Jack percorre con il suo furgoncino rosso. La donna ha bucato, il suo crick si è rotto e chiede aiuto all’ingegnere. Jack tenta di scartarla ma l’insistenza della donna prevale, causando la prima reazione mortale (per lei) da parte di Jack. Gli altri “incidenti” riguardano Fallon Hogan (già attrice per von Trier in Dancers in the Dark, 2000 e Dogville, 2003), Sofie Gråbøl (Il grande capo, 2006) e Riley Keough.
The house that Jack built ha dialoghi spesso esilaranti, ai limiti del paradosso, soprattutto per l’impunità di cui gode Jack, che per il vizio di fotografare le sue vittime è capace di riportare i corpi sul luogo del delitto se l’inquadratura fatta al momento dell’omicidio non lo soddisfa, nell’indifferenza generale della polizia e della gente.
Quello che riesce insopportabile del film è l’accanimento che la macchina da presa ha nel riprendere l’agonia delle donne, una pornografia della violenza che rasenta la perversione. Il film è spesso intervallato dall’animazione in cui Jack dialoga con Verge – una parte interiore infantile o un grillo parlante, che poi prenderà le forme di un Virgilio dantesco con le sembianze di Bruno Ganz -. Con queste voci fuori campo il regista cerca di prevenire le critiche di misoginia, spiegando che Jack non ha ucciso solo donne e aprendo il baule – o meglio il freezer – degli orrori in cui vengono esposti anche cadaveri maschili. Ma la prima, insopportabilmente lunga parte è un attacco sadico contro il corpo femminile, soprattutto quando Jack arriva a tagliare i seni a una ingenua compagna che aveva, per altro, capito la sua pazzia. Vi è un’ulteriore excusatio non petita quando von Trier cerca di spiegare che sanguinari come Hitler, Mussolini, Stalin hanno una loro valenza come icone negative. Quasi a volere minimizzare le battute filonaziste, che improvvidamente aveva esternato sulla Croisette, durante la presentazione del film Melancholia nel 2011, fatto che gli costò il bando dal festival fino ad ora. Von Trier torna a Cannes sette anni dopo, ma fuori concorso in modo da non avere spazio per una conferenza stampa, dove, da indomabile qual è, potrebbe compromettere nuovamente l’immagine sua e del festival. Molte le disapprovazioni alla fine della proiezione, soprattutto di natura morale perché la capacità cinematografica è indubbia. Non basta citare Tolstoj (la falciatura dell’erba), L’Inferno di Dante e il Faust di Goethe. Non basta far capire che Jack non avrà redenzione. Troppo discreta è la repulsione per il serial killer, figura che è pericoloso deridere solamente, perché si potrebbe aprire le porta all’emulazione.