Due film musicali, in bianco e nero, hanno brillato nella prima parte della 71esima edizione del festival di Cannes, con un piccolo balzo indietro nel tempo: Leto di Kirill Serebrennikov e Cold War di Pawel Pawlikowski. Leto, che significa estate, racconta la nascita della leggenda del rock sovietico, Viktor Coj (Teo Yoo), nella Leningrado degli anni Ottanta, mentre sfrigolano i primi bagliori della Perestroika. Il rock e il punk sono una mistica da condividere con gli amici in case fumose, ascoltando i dischi di Lou Reed, David Bowie, Led Zeppelin, Velvet Underground, comprati di contrabbando assieme ai jeans. I controlli grotteschi dei concerti pubblici di Coj e degli Zoopark, in cui venivano repressi effusioni e sconvolgimenti istigati dalla musica, sono la cartina di tornasole della mancanza di libertà che ha impedito oggi al regista russo – già noto per Izmena (2012) e Parola di Dio (2016) – di raggiungere la Croisette perché sottoposto in patria a misure restrittive.
Nel film interviene l’animazione a mettere in atto una trasgressione onirica. Purtroppo nessun cartone animato ha portato Serebrennikov sulla Croisette, proprio come è accaduto a Jafar Panahi, in libertà vigilata dal 2010 per aver partecipato ai movimenti di protesta contro il regime iraniano. Panahi ha presentato ieri in concorso 3 facce, un meta-film come Taxi Teheran (Orso d’oro a Berlino nel 2015), in cui l’attrice Behnaz Jafari e lo stesso Panahi interpretano loro stessi alla ricerca di una giovane ragazza, ostacolata dalla famiglia a continuare gli studi artistici. Il viaggio mostra l’arretratezza, ma anche la gentilezza del popolo iraniano, soffocato dal regime. Panahi non ha perso l’originalità e l’abilità che lo fece emergere con Il palloncino bianco (Caméra d’or nel 1995) e Il cerchio, Leone d’oro nel 2000, come è invece accaduto, almeno per Todos los Saben, ad Asghar Farhadi, che ha aperto la rassegna con il glamour dei suoi protagonisti, Penélope Cruz e Xavier Bardem. Farhadi nel raccontare il ritorno di Cruz dall’Argentina alla Spagna per partecipare al matrimonio della sorella, calca la mano sulla cifra caratteristica del suo cinema introspettivo e pieno di scatole cinesi: il fiorire di fantasmi e segreti, miserie e qualche piccola virtù dell’animo umano, che covano nel bacino esplosivo della famiglia e della piccola comunità. Ma lo schema, che gli ha fatto guadagnare l’Oscar nel 2012 con Una separazione e il premio della Giuria ecumenica nel 2013 con Il passato, è scappato di mano al regista, scadendo nel melodramma. Gli animi si sono riaggiustati con Cold war di Pawel Pawlikowski, che narra la passione travolgente tra il musicista Wiktor (Tomasz Kot) e la ballerina cantante Zula (Joanna Kulig), snodandosi fra la Polonia della cortina di ferro e Parigi. Wiktor e Zula sono un Romeo e una Giulietta polacchi, divisi dalle imposizioni disumanizzanti del regime socialista. Cold war ha ritmo folk e jazz, citazioni cinematografiche, dialoghi eccellenti, ma non è dirompente quanto lo fu Ida, storia di una suora che riscopre le sue origini ebraiche, premio Oscar nel 2013. Forse perché nel film vi è il risvolto troppo privato di un regista schivo, che ha preso spunto per la storia dal legame dei suoi genitori e ha creato, magari per difesa, nei confronti dei protagonisti quasi un senso di dorato straniamento.
Un effetto simile a quello de Il libro delle immagini di Jean-Luc Godard, lungamente applaudito, nonostante l’assenza del regista, che non si è mosso dal suo eremo in Svizzera. Più che un film, Il libro, è quasi un’istallazione che attraverso frammenti di cinema, telegiornali, video deformati, colorati, allargati, sgranati e reinquadrati spiega la sfiducia totale nell’uomo, da cui, secondo Godard sono inestirpabili la violenza e la menzogna. Attraverso l’asincronia del suono rispetto al discorso, come già in Addio al linguaggio, Godard effettua un notevole lavoro di montaggio fondendo, tra gli altri, Pasolini, Fellini, Ford, Sissako, Goya e Vittorini. Cinquant’anni dopo aver bloccato il festival nel ’68, Godard torna a provocare puntando il dito sulle nostre responsabilità, dolendosi per il mondo arabo, che una volta era Sherazade, ed ora è deflorato dalla guerra. La Croisette ha portato sugli schermi anche l’Asia ruggente dei nostri giorni con Ash is purest white di Jia Zhang-Ke.
Un’eccellente Zhao Tao è la moglie di un piccolo boss della malavita nella Cina della mafia e delle trasformazioni epocali, che rincorre il capitale, violentando la morale e il territorio con costruzioni e dighe. Christophe Honoré con Piacere, amare e correre veloce cattura il dramma dell’Aids negli anni Novanta, ma, pur non mancando di ironia e di tenerezza, insiste troppo nel didascalismo della fragilità umana nella corsa impari contro la morte. Infine, classicissima nell’impianto, ma piena di compassione e umanità, è l’opera prima dell’egiziano A.B. Shawky, Yommedine , che in arabo significa il giorno del giudizio. Si partecipa al dramma di un gracile uomo lebbroso e della sua amicizia con un orfanello. Il merito del film è quello di farci familiarizzare con il dolore di un uomo discriminato per la sua forma fisica, la pecca quella dell’elementarità cinematografica.
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