Di nero vestiti, dal corvino mediorientale di un ragazzo al biondo caucasico di una bimba, uomini e donne azeri, giovani e vecchi, ritratti in scala più grande del reale, costellano una Madonna lignea in una delle stanze di Palazzo Correr a Venezia. Sono parte dei cinquantacinque scatti dell’esposizione “The home of my eyes” (fino al 24 novembre), ideati e realizzati da Shirin Neshat dal 2014 al 2015, e mai esposte prima in Europa. «La fotografia è il mio primo amore e rimane la mia ossessione: strettamente in bianco e nero e priva di paesaggi. In questo ciclo mi sono ispirata e ho usato lo stile di El Greco, nei cui quadri si dà grande risalto alle mani, che i miei soggetti tengono in posizione di preghiera». Se ci si avvicina alle immagini si distingue, trascritto a caratteri minuscoli sulla pelle, un testo calligrafico, simile a quello con cui l’artista aveva ricoperto il corpo suo e di altre donne, avvolti in un chador, nella serie fotografica Unveiled o Women of Allah, realizzata dalla videoartista e regista iraniana dal 1993 al 1997. Sono versi d’amore di poetesse iraniane riportate in farsi, a mano, con la penna e l’inchiostro a china, accostate a volte a un’arma che spunta tra le piante dei piedi, vicino alla tempia, verticale sul profilo, o puntata contro chi la guarda. Neshat era negli Stati Uniti quando Khomeyni e gli Ayatollah nel 1979 misero fine alla monarchia dello Scià e ha raccontato così la reazione femminile alla rivoluzione islamica. «In Iran le donne sono oppresse ma altrettanto rivoluzionarie. Fanno film, si istruiscono e, anche se la società continua ad essere fortemente tradizionale, c’è speranza per le nuove generazioni che parlano in inglese e si diplomano». Accanto, in una stanzetta viene proiettato il video Roja, basato su un sogno dell’artista, che rivela il desiderio di ricongiungersi con la propria terra e che alla fine si trasforma in un’assunzione in cielo dai contorni macabri. «Non vado in Iran dal 1997 e per me è più facile viaggiare in altri Paesi. Come popolo siamo dominati dal potere dei fanatici. Come artisti e come persone siamo influenzati dal luogo di origine», sottolinea Neshat che cerca le suggestioni del Paese natio in contesti simili, come l’Azerbaigian delle persone che ha ritratto e l’Egitto, dove ha girato il suo secondo lungometraggio – il primo, Donne senza uomini, aveva vinto il Leone d’Argento nel 2009
-, Looking For Oum Kulthum, presentato alla 70esima Mostra del cinema di Venezia. È un biopic sulla cantante egiziana, tra le più celebri e amate in tutto il mondo arabo, soprannominata la “stella dell’Oriente”. «È la più importante e significativa artista musulmana del Novecento. In Iran siamo cresciute ascoltando Oum Kulthum. La sua popolarità era molto vasta, la magnitudine del suo successo oltrepassava il mondo arabo con un profilo diverso rispetto ad altri artisti segnati da esperienze estreme, come la droga e il suicidio. Oum Kulthum è arrivata alla celebrità e poi è morta da persona ordinaria». Nata Fatima Ibrahim al-Biltagi, la cantante, e per un tratto anche attrice, nacque in un villaggio rurale agli inizi del secolo scorso, forse nel 1904 (le anagrafi all’epoca non erano affidabili). Poverissima, era dotata di un talento vocale tale che a dodici anni due famosi musicisti, un cantante, Abu El Ala Mohamed, e un liutista, Zakaria Ahmed, le chiesero d’accompagnarli al Cairo. Potè accettare il loro invito solo all’età di 23 anni, ma nel frattempo aveva continuato a cantare, abbigliata da ragazzo, in numerosi piccoli teatri. La sua popolarità crebbe esponenzialmente fino alla consacrazione nel 1948 da parte del presidente egiziano Abdel Nasser, ricambiata dal fervido patriottismo di Oum Kulthum.
«Quando ho cominciato a progettare questo film gli egiziani avevano reazioni opposte. Alcuni erano contrari e mi dicevano: “Buona fortuna. Non arriverai mai a catturarla”. Mentre altri mi incoraggiavano, rassicurandomi che il modo migliore per rappresentarla era attraverso gli occhi di uno straniero. Ho cercato di essere più aderente possibile alle sue esperienze». Il punto di partenza del progetto è stato il villaggio di Tamay al-Zahayra, presso la città di al-Sanballawayn, nel Governatorato di Dakahlia, dove è nata: «Abbiamo incontrato il figlio adottivo che si è ritirato nel villaggio d’origine di Oum, dopo essere stato sfrattato dalla casa al Cairo dal marito di lei». Nel 1953 l’artista si era infatti unita in matrimonio con il medico Hassen El Hafnaoui, preoccupandosi di includere una clausola che le avrebbe permesso di divorziare. «Il figlio vive in una povertà di cui siamo rimasti scioccati. Ci ha aperto gli album fotografici e ci ha raccontato aneddoti e storie, felicissimo dell’idea di un tributo alla madre. Le sue fotografie sono in ogni dove nel villaggio, ma nessuno la ricorda come un eroe nazionale, nessuno lavora per tratteggiarne il profilo». Conservatrice, o progressista, opportunista o votata alla sua nazione, Oum è una figura misteriosa, che rifuggiva ogni mondanità. «Abbiamo capito che nessuno sa veramente chi sia: è un mito, di cui è impossibile sradicare la leggenda. Non c’è nemmeno un libro su di lei e di scritto rimangono solo le lettere al figlio. Alcuni dicevano che era meravigliosamente dolce, altri che era una furia piena di rabbia; alcuni la detestavano perché è stata vicino a Nasser, altri l’amavano perché era una nazionalista. Abbiamo capito che gli egiziani non possono toccare questa materia, perché non hanno la giusta distanza e il materiale è ancora incandescente. Così abbiamo tirato un altro filo: la mia fissazione per lei, il motivo per cui è rimasta scolpita dentro la mia mente. Il percorso obbligato passava attraverso le canzoni, ma noi ci siamo concessi di romanzarlo un poco». Così Mitra (Neda Rahmanian), la regista che nel film di Neshat cerca di catturare il culto della cantante (interpretata da Yasmin Raeis) ricostruisce anche i momenti più importanti della storia dell’Egitto: la rivoluzione, le proteste femministe, la fine della monarchia anche attraverso repertori d’archivio, tra cui quelli dei suoi funerali nel 1975 cui parteciparono migliaia di egiziani. Mitra, specchiandosi nel suo mito, attraversa una profonda crisi artistica e personale che ricorda 8 e 1/2 di Federico Fellini. «Amo quel film e per me è un modello. Il punto di incontro tra il mio progetto e quello di Fellini è l’immaginazione, che diverse volte irrompe con visioni oniriche».
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