Si apre (bene) in un mondo popolato di uomini alti dodici centimetri e con un padrino, Alessandro Borghi, al posto della classica madrina, la 74esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Questa mattina la proiezione di “Downsizing” di Alexander Payne ha lasciato un velo di buon umore nella critica, abituata a ingurgitare nelle aperture di festival melodrammoni mainstream, senza nulla togliere alla categoria, ma che raramente sorprendono o divertono. “Downsizing” è mainstream in maniera intelligente e ironica, desacralizzando le tematiche a forte rischio populista che si trova a toccare: ambientalismo, immigrazione, partecipazione alla democrazia.
Tutto ha inizio in Norvegia, a Bergen, dove una coppia di scienziati scopre la formula per rimpicciolire gli umani e permettere così di salvare il pianeta dalla loro ingombrante presenza. Alla conferenza di presentazione dei “minuscoli” uno degli scienziati tiene infatti in mano un sacchetto di plastica in cui sono contenuti i rifiuti prodotti in quattro anni da una nutrita comunità mignon.
Il processo di miniaturizzazione, irreversibile, ha un grande successo in tutto il mondo, anche se la spinta all’operazione non è sempre dettata da coscienza civica o ambientale. Come le misure, si riducono in proporzione le spese e così un americano medio come Paul Safranek (Matt Damon) si trova a salutare parenti e amici perché potrà permettersi una case stile Barbie Malibu, che nessuna banca gli finanzierebbe mai in formato reale. Spinto anche dalla moglie Audrey (Kristen Wiig), Paul si sottopone alle cure di rimpicciolimento per poi svegliarsi lillipuziano e single, perché la moglie non ha avuto lo stesso suo coraggio.
La vita è dura per Paul fino a quando incontra un fantomatico serbo festaiolo e votato al consumismo selvaggio, Dusan (Christoph Waltz, al solito bravissimo), che vuole introdurre beni di lusso tra i rimpiccioliti, terreno fertilissimo visto che il loro desiderio imperante è la rivincita economica: ovvero vivere con la larghezza che nel mondo “normale” non si sarebbero mai potuti permettere. Ma questo universo crapulone non è senza costi: poggia le grasse spalle su una platea di poveri, che puliscono le sue case e che vivono in celle fuori dal mondo edulcorato. Paul lo scopre aiutando, in un primo tempo suo malgrado, Gong Jiang (Hong Chau), colf di Dusan e dissidente vietnamita, rimpicciolita dal regime solo per disfarsi di lei.
Con la pecca di indugiare un po’ troppo nella seconda parte, “Downsizing” diverte in maniera intelligente con una trama che trova precedenti nobili nel “Dr. Cyclops”, film del 1939 diretto da Ernest B. Schoedsack, già regista di “King Kong” (1933), e in “Viaggio allucinante” di Richard Fleischer (1966). L’originalità sta nella continua spinta del regista, che è anche cosceneggiatore assieme a Jim Taylor, nel circostanziare ogni idealismo con i desideri bassi della natura umana, come ci aveva insegnato già in Paradiso amaro con cui nel 2012 aveva ottenuto l’Oscar come migliore sceneggiatura non originale, stessa statuetta conquistata nel 2005 con “Sideways – In viaggio con Jack”.
E coerenti con questa linea minimal, sono stati regista e attori alla conferenza stampa, piuttosto insipida, in cui la frase più simpatica l’ha detta Matt Damon su una scia aforistica che aveva tutta l’aria di essere stata preparata da tempo: “E’ un film ottimista: il film più ottimista di Alexander ed è apocalittico”. Poi si è indugiato sul solito repertorio, di quanto lavorano bene gli attori se un regista è meticoloso come Payne (probabile), e su quanto questo sia un film universale: “Riguarda l’ambiente e l’immigrazione ma è anche su come ci si comporta con il proprio vicino”, ha spiegato Payne che ha scansato l’unica domanda provocatoria, quella sulla portata politica e su come lo prenderà il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. “Noi siamo più interessati all’ umanesimo che alla politica. Non so come reagirà Trump e il suo elettorato. Questo è un film per tutti”.
Ottimo inizio anche per la sezione Orizzonti che si apre con il film di Susanna Nicchiarelli, “Nico 1988”, sulla cantante dei Velvet Underground. Grazie anche all’ottima performance dell’attrice danese Trine Dyrholm, Nicchiarelli, già autrice di “Cosmonauta” (2009) e “La scoperta dell’alba” (2013), restituisce la fragilità di un personaggio condannato ad essere un’icona del suo passato (i Velvet underground appunto e le storie d’amore con i grandi personaggi del rock), da cui vorrebbe sgusciare per salvare se stessa e il figlio che ha tentato il suicidio. Dyrholm, che nella vita reale era una cantante, consacrata al cinema da Susanne Bier e Thomas Vinterberg, è perfetta nelle interpretazioni artistiche di Nico, spesso slabbrate dall’uso di stupefacenti e dai piccoli egoismi e intemperanze proprie di una persona che non sa mettere filtri tra sé e il mondo. Brava Nicchiarelli a rendere il personaggio scavalcando il percorso piano della biografia, cedendo poche volte al terreno scabroso dei flashback, troppo spesso insidiosi nel far scivolare il tutto verso il melodramma. “Nico 1988” è il racconto complesso di un pezzo di storia della musica e di un’intimità mai banale. Bell’avvio per Venezia.