Trieste è un sussulto verticalizzato tra il Carso e il mare, una caduta libera quando il treno sbuca dalle gallerie, uno scossone dopo la noia padana se si inforca con l’auto la strada costiera. Niente è mediocre a Trieste, non la gente, miscuglio slavo ingentilito dai tratti latini, per dirla con Bobi Bazlen; non il dialetto che a forza di contrarre e tradurre fa precipitare qualunque cosa in un iperrealismo spesso sboccato; non l’aspetto da Vienna bianca, austera e a tratti popolana. Chi ci vive ne rimane segnato, figuriamoci chi ci nasce e cresce come Mauro Covacich, nonostante si sia “affrancato” dalla sua città natale da anni. Covacich torna all’alveo materno con La città interiore in una forma bizzarra, come un ago che entra ed esce da una trama per cucirla tra schegge autobiografiche, autocritica, riflessioni diaristiche, analisi politiche, sangue e letteratura. Inizia con due pennellate d’archivio: nella prima un bambino, suo padre, Flavio, di sette anni, che porta una preziosa sedia tra le macerie di una città in ginocchio nel 1945 sotto gli occhi di un maori. Nella seconda, Mauro a sette anni nel 1972, nascosto tra le gambe del padre, guarda il fumo levarsi dalle cisterne del porto, fatte saltare dai terroristi di Settembre Nero che nello stesso anno saranno autori del massacro al villaggio olimpico di Monaco. Subito la prima anomalia rispetto al resto d’Italia: Trieste non fu liberata dal CNL locale; i tedeschi si arresero all’esercito neozelandese, di cui faceva parte il maori della sedia, mentre i titini entravano dalla parte opposta della città, accolti gelidamente dai non comunisti italiani e sloveni. Ma Radio Londra annunciò che la città era stata liberata da Tito: era il prezzo che l’Italia doveva pagare per aver perso la guerra. Il territorio fu diviso in due, la zona A, amministrata dagli angloamericani, e la zona B dall’esercito jugoslavo, fino al 1954 in cui Trieste fu restituita all’Italia. Tutto lo stivale tifava per quel riabbraccio, financo, come ricorda Covacich, la patriottarda Nilla Pizzi che in Vola colomba cantava «vorrei volar laggiù dove il mio amor/che inginocchiato a san Giusto/prega con l’animo mesto», vincendo poi Sanremo nel 1952. Ma quella nota di spasmo rimase a lungo nelle orecchie, visto che in un sondaggio del 1999 il 70% degli italiani non sapeva che Trieste fosse italico suol. L o racconta Jan Morris – uno dei personaggi di cui Covacich parla – nel suo Trieste o del nessun luogo (Il saggiatore, 2003), in cui l’autrice inglese ragiona sulla città “inafferrabile”, tratteggiandone in fondo la sua mancanza di personalità: priva di paesaggi indimenticabili, etnicamente ambigua, storicamente confusa. Ma a farle formulare un giudizio così fallace, forse era stata una sua personale indefinitezza, quella sessuale, visto che la scrittrice arrivò a Trieste alla fine della Seconda guerra come soldato James. Covacich racconta il ragazzaccio aspro e vorace, con cui Umberto Saba identificava la città, anche attraverso l’amatissima nonna, giunta dal Sud, che veniva sempre considerata foresta proprio come lo stesso scrittore dagli ultrà dell’adottiva Roma. Ne ricopia (e non è la prima volta) i diari, anche se riconosce in questa pratica certa pornografia, ma sono anche quelle frasi il forcipe attraverso cui definisce indirettamente il ritratto suo, di una città e alla fine di un intero Paese. Parla su skype di Svevo con la sorella costretta dalla globalizzazione a staccarsi dalla famiglia per lavorare a Dubai e ricorda il prezzo pagato dallo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini per la sua fede anticomunista e antijugoslava. Compie un viaggio nei Balcani per omaggiare la tomba del poeta croato Goran Kovacich, spinto soprattutto da quella omonimia che stride per una sola lettera. E da quelle radici slovene dimenticate che avevano fatto accendere lo scrittore Boris Pahor per poi creare un sodalizio letterario e umano. Covacich si abbandona a riflessioni sulle ingiustizie storiche, come l’esodo istriano- giuliano-dalmata fotografato da Fulvio Tomizza in Materada (riedizione Bompiani, 2015). Racconta le foibe – i buchi carsici in cui vennero gettate alcune migliaia di oppositori a Tito nei quaranta giorni di “reggenza” dell’esercito jugoslavo – attraverso l’inconsapevolezza del nipote e della fidanzata che piantano la tenda a Basovizza quando hanno bisogno di stare soli. Attraverso l’esistenza “Forrest Gump” del compositore Antonio Bibalo, un mostro sacro nel Nord Europa, da noi quasi sconosciuto; la fascinazione per le lezioni universitarie di Claudio Magris. Trascrive l’indimenticabile lettera di una delle vittime della Risiera di San Sabba – l’unico campo di concentramento in Italia -, Pino Robusti, che poco prima di morire indirizza alla sua fidanzata righe che ogni genitore vorrebbe scrivere alla propria figlia: «Sii forte, onesta, generosa, inflessibile». Per godere in pieno de La città interiore, bisogna lasciarla depositare. Assieme alle (belle) parole che l’autore non ha paura di usare, come modanatura o identità rizomatica, con quella cura che ha mosso tante sue storie (A perdifiato, Einaudi 2005, A nome tuo, Einaudi, 2011 e La sposa, Bompiani 2014). Ci vogliono due giorni di riposo. Allora le immagini diventano tridimensionali.
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Mauro Covacich, La città interiore ,
La nave di Teseo, Milano, pagg. 234, € 17