Di Cristina Battocletti
L’ultimo Leone, quello d’oro alla carriera del 2008, non ha potuto ritirarlo di persona. “Ero in carrozzina per una malattia autoimmune – la sindrome di Guillain-barré n.d.r. – ma da casa aspettavo le reazioni con grande curiosità”. Ermanno Olmi risponde da Asiago, rifugio per riflettere e per curare la salute, che è stata malferma in questi ultimi anni, ma che va curando. Da anni il regista bergamasco ha casa sull’altipiano veneto, dove ha girato molte scene di trincea per l’ultima pellicola, “Torneranno i prati” (2014), il corpo a corpo di un soldato con la Prima guerra mondiale.
Al Lido nel 2011 era approdato “Il villaggio di cartone”, che tra le quinte di una chiesa raccontava la precarietà della vita degli immigrati. Una sceneggiatura che aveva scritto in collaborazione con Claudio Magris e Gianfranco Ravasi.
In questi giorni Olmi è impegnato al montaggio di un lavoro sul cardinale Carlo Maria Martini. “Un personaggio che ha influenzato la nostra vita su molti aspetti, dal terrorismo all’eutanasia. Sarei voluto venire a Venezia per salutare il mio grande amico Terrence Malick – in concorso con con “Voyage of Time” n.d.r.-. Mi farò mandare uno di questi straordinari apparati moderni grazie a cui si possono vedere i film a casa –ironizza. – Mi piacerebbe anche rivedere la signora Natalie Portman, attrice bella, intelligente, armoniosa che suscita sentimenti non ancora esplorati nei suoi ammiratori. Vorrei salutare anche tutti quegli amici con cui sapevamo esultare per le felicità vere, per la voglia di cambiare il mondo, che ora è asservito a questo umiliante scopo che alla fine è il denaro. Io appartengo a quella generazione in cui abbiamo creduto nei sentimenti, i più semplici, i più necessari. Ora è tutto allo sbando e si commettono errori anche gravi. A questo punto può accadere qualsiasi cosa, mentre le vere civiltà sono in grado di governare il tempo”.
La prima volta che andò a Venezia Olmi aveva 22 anni ed era un semplice spettatore. “Quando sono arrivato al Lido mi sono commosso, ho provato un tipo di emozione che uno non pensa di avere nelle corde dell’anima, una specie di sogno reale. Come quando si è innamorati e si perde il controllo della razionalità. Il vantaggio di questa perdita sta nel fatto che uno avverte sensazioni che non aveva mai provato prima”.
La prima volta da “professionista” alla Mostra, invece, fu con “Un certo giorno” (1969), che hanno poi riproiettato dopo la consegna del Leone d’oro alla carriera: “Quando mi hanno raccontato le reazioni del pubblico, ho rivissuto l’innocenza dei miei 28 anni, quando la vita ha molti scopi e l’avvenire è aperto. E’ stato un successo straordinario, un film riuscitissimo perché amavo il cinema ed ero sfrenato. Non mi preoccupavo del rischio del fallimento, perché non avevo niente da perdere.”.
Il Leone d’oro è arrivato nell’89 per “La leggenda del santo bevitore”. “Non me lo aspettavo proprio. E’ stato una vera sorpresa. Due anni prima avevo vinto l’argento per la miglior regia con “Lunga vita alla signora!” e il mio amico e critico Tullio Kezich sosteneva che non avevo l’oro solo perché ero a Parigi per le riprese del film successivo. A me non importava, ero felice, perché un premio è sempre il riconoscimento di quanto impegno metti nelle cose che fai”.
Molto prima, nel 1978, il maestro aveva ricevuto la Palma d’oro al festival di Cannes per “L’albero degli zoccoli”. “Sulla Croisette mi ha dato grandi soddisfazioni. In quell’occasione ho conosciuto il regista americano Alan Pakula – che lo stesso anno firmò “Tutti gli uomini del presidente”, vincitore di quattro premi Oscar n.d.r.- che poi è morto in un incidente d’auto. Io non parlavo una parola di inglese e lui era nelle stesse condizioni con l’italiano. Avevamo però una grande intesa, comunicavamo come fanno i bambini, quando la parola si percepisce attraverso il suono. Mi disse che dopo aver visto “L’albero degli zoccoli” la sua vita era cambiata”.
E Venezia? “Venezia ha quello che appare come un limite o un difetto, credo e invece si rivela come una virtù. La ricordo con quel tanto di provincialismo che, se dosato, è bello, è come fare un pic nic in dieci”.