Non esiste la categoria della “letteratura triestina” che condiziona gli stili degli autori- sostengono Angelo Ara e Claudio Magris in Trieste. Un’identità di confine (Einaudi, 1987). Al contrario, secondo l’analisi dei due pensatori, sarebbero gli scrittori a infondere una personalità alla città. Allora, comunque la si voglia pensare, un’identità letteraria triestina si crea per sottrazione, così come in levare si evincono le qualità dell’uomo del Novecento dall’Ulrich di Robert Musil ne L’uomo senza qualità, emblema della Mitteleuropa in fase di disgregazione. Anche Scipio Slataper denunciò in Scritti politici (1925) la mancanza di di tradizione culturale a Trieste, ma era la provocazione di chi vuole smuovere il terriccio su una tomba, la città fatta a brandelli dalle sue anime inquiete bruciate dal nazionalismo: il cuore italiano, le spalle slovene, la tavola imbandita grazie all’Austria che commerciava attraverso un ceto ebraico laicissimo e colto.
I triestini – fra questi, i fratelli Carlo e Giani Stuparich, Biagio Marin (seppur gradese), Umberto Saba, lo stesso Slataper – andavano a Firenze per sentire la centralità dell’Italia e l’allontanarsi dal declino. Il porto austroungarico era l’emblema della cultura kakanika musiliana – doppiezza, ambiguità e tragicità – che Svevo utilizzò come leva per analizzare la frantumazione dell’io e mandare a farsi benedire il formalismo crociano. Così, se vogliamo per pura sottrazione, si è formata una categoria di “scrittori triestini” tra cui Svevo per l’appunto, Umberto Saba, “l’importato” James Joyce, il (per fortuna) non del tutto dimenticato Pier Antonio Quarantotti Gambini. Ne esiste anche una attuale, in cui, in prima linea, si contano Mauro Covacich, Claudio Magris, Boris Pahor e Pino Roveredo, attraverso cui emerge l’esperienza della Trieste degli ospedali psichiatrici. Di essa è figlia Ballando con Cecilia (Lint 2000), storia di un’anziana ricoverata da tempo immemore in una delle strutture che la riforma per la chiusura dei manicomi non è riuscita a chiudere. Basaglia volle sperimentare qui, nelle propaggini orientali dell’Italia, la sua idea di cura delle malattie mentali, forse anche perché il terreno era stato preparato da Edoardo Weiss, discepolo di Freud. Mastica e sputa, l’ultimo libro di Roveredo, ruba un verso alla canzone di Fabrizio De André, Ho visto Nina volare (dall’album Anime salve 1996, BMG Ricordi) ed è una raccolta di racconti in cui ha molta parte la città bellissima, ma con un rovescio, per dirla con Roveredo, elegante di palazzi bianchi ma pure insofferente (tanto che in tedesco, triest significa triste e Trieste). Il cuore di Trieste è malato, perciò Trieste è bella. La pena fiorisce nella bellezza, scriveva il poeta sloveno Srečko Kosovel. Roveredo è la voce della devianza, carcere, alcolismo, povertà e marginalità che gli avevano fatto vincere il Premio Campiello nel 1995 con Mandami a dire (Bompiani) con quella lingua inventiva, i cui accostamenti stupiscono sempre: «Mi sono ammalata di coraggio», i sogni che «non si accendono», «l’abbraccio degli amputati».
Roveredo andava al “bagno Lanterna”, detto Pedocin, forse l’unico stabilimento balneare in Europa con il muro di separazione tra uomini e donne. Lo racconta ne I mari di Trieste, in cui la scrittrice Federica Manzon raccoglie il senso dell’acqua per la città attraverso le voci degli scrittori più importanti. Un posto in cui si fanno babezzi (si chiacchiera) nei «toni spicci, grevi con noncuranza», scrive Manzon, del dialetto triestino che salda le classi sociali. Tra i ricordi marini, c’è quello di Mauro Covacich che guardava gli amici esprimersi nei clanfa, dal tedesco krampen, uncino, un tuffo eseguito piegando il corpo ad u. Gillo Dorfles racconta di quando si trovava al bagno Savoia con i coetanei Leonor Fini e Leo Castelli – divenuti lei fotografa a Parigi, lui mercante d’arte a New York – davanti al «grande lago salato senza onde» che è il mare adriatico davanti a Trieste. Alessandro Mezzena Lona in un crescendo ironico pennella gli agguati di aspiranti autori all’anonima, ma riconoscibilissima (anzi riconoscibilissimo), Scrittrice della città per ingraziarsela in vista di una possibile pubblicazione. Ci sono poi le nuotate di Boris Pahor alla Diga, “la solarità meridionale e la malinconia nordica” spiegate da Claudio Magris, il primo amore sfortunato di Pietro Spirito e il lucido, spietato, commovente racconto del transessuale Trieste di Mary Barbara Tolusso: «Con un bel conflitto in corpo», proprio come la città. Accanto alle parole, le foto di Diego Artioli, ribelli al patinato, in cui si rivela l’anima popolare di Trieste, dove tutti sono bagnanti prima che cittadini, incuranti e distratti della loro fisicità denudata. Una città dove concludi un affare in doppio petto e tailleur e un’ora dopo sei steso a pochi metri sull’asciugamano a prendere il sole; in cui convivono le raffinate geometrie asburgiche e i migranti che si rifugiano di notte nelle carie del Porto Vecchio. Perché Trieste è anche un luogo di attraversamento, un limen con la Slovenia, la cui letteratura è stata a lungo snobbata e per fortuna ha trovato degli apripista come Elvio Guagini che firma la prefazione a Questa Trieste…, compendio di letteratura d’oltre confine: Košuta, Kocbek, Pahor, Prešeren, Rebula. Letteratura di tutto rispetto, a lungo rimossa.
Chi ha rubato il confine? sono le memorie di Mauro Manzin, giornalista che ha provato sulla propria pelle l’implosione dei Balcani, da «gran bastardo» quale si sente, di lingua madre slovena, ma italiano per tutto il resto, anche nella leva. Le sue vacanze dai parenti a Pola, prima della guerra che ha diviso l’ex Jugoslavia, hanno l’odore e le pigrizie del L’ isola di Stuparich.
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AA. VV., I mari di Trieste, a cura di Federica Manzon, Bompiani, Milano, pagg. 120, € 17
Mauro Manzin, Chi ha rubato il confine?, Goliardica editrice, Trieste, pagg. 100, € 10
Marija Pirjevec, Questa Trieste…, Mladika, Trieste, pagg. 254, € 15
Pino Roveredo, Mastica e sputa, Bompiani, Milano, pagg. 185, € 15