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Un western filologico, pepato da esplosioni di teste e da sincera
partigianeria contro i razzisti.Niente di nuovo
La statura di un regista si misura anche dalla capacità di “deportare” il pubblico in cinema remoti, pur di godersi l’ultima sua fantasia. Così accade per The hateful eight di Quentin Tarantino: il formato Ultra Panavision 70 – usato in pochi film, tra cui Gli ammutinati del Bounty di Lewis Milestone (1962) – permette un’inquadratura estesa e distesa, ma è adattabile a pochissime sale. E chi dei suoi ammiratori non cede al ricatto si macera nel dubbio di essersi perso un’esperienza irrinunciabile.
Non è il caso, purtroppo. Una scritta cubitale appare subito a spiegare che si tratta dell’ottavo film del regista texano, mentre scorre il tappeto della filologica (ma interminabile per la frenesia quotidiana) ouverture di Ennio Morricone. La dicitura – 8vo film- è ripetuta in ogni locandina come a dire: con solo sette pellicole ho allungato il passo del cinema e ora mi concedo un capriccio. Privilegi di chi ha saputo dire qualche cosa di nuovo, fatto che perfino i non “tarantinati” devono riconoscergli. La critica di Cannes nel 1994 uscì spaccata dalla proiezione di Pulp fiction, incerta se abbandonarsi alla corsa della spacconeria metropolitana con i cervelli schizzati sugli schienali delle auto, o bollare il film come un fenomeno da baraccone. Ma alla fine Tarantino si è portato a casa la Palma d’oro, perfezionando quella bambinesca genialità che aveva già solleticato i più curiosi con Le Iene (1992). Da allora è scaturita una corrente di affiliati dietro la macchina da presa, che ha sdoganato attori finiti nel cimitero degli elefanti come John Travolta e una nuova brillantina si è posata sulle cravattine sottili e sull’occhiale scuro alla John Belushi. La singolarissima attitudine a trasformare il trash cinematografico dei bmovies – compresi i porno soft italiani – i poliziotteschi, il western, di cui si è nutrito da bambino è diventata un registro in cui si mescolano il surreale, lo splatter, il paradosso. Sulle punte della comicità Tarantino può permettersi fumettoni (Kill Bill I, 2003 e Kill Bill II, 2004) e favole moderne per riscrivere la Storia sconfiggendo i cattivi: a partire dai nazisti che fanno la fine dei topi affumicati in un cinema in Bastardi senza gloria (2009) a Django unchained (2012) che provoca il disgusto verso i razzisti bianchi americani più di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen.
In The hateful eight siamo alla fine della Guerra Civile e il nero, più crudamente negro per la parte sbagliata dell’America, c’è anche questa volta. Il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson) non è lo schiavo battuto di Django, ma un militare nordista leggendario anche se per salvare se stesso non ha esitato ad ammazzare i compagni di battaglia. Vive di taglie sui corpi dei banditi (la cui classificazione è piuttosto labile, dipende – spiega Tarantino – dal pendolo della legge), dopo esser stato anche lui oggetto di taglia. Cerca un passaggio per sé e le sue vittime fino a Red Rock in un Wyoming alla Sergio Leone (cui Tarantino è debitore), assiderato da una tempesta di neve che morde «il culo» a una diligenza. Su questa viaggiano John Ruth, Il Boia (Kurt Russell), e la sua “preda”, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Daisy è un pezzo da Novanta che vale tutti i morti di Marquis Warren, anche se nessuno mostra di conoscerne le gesta nefaste. Daisy è viva perché nella personale e inflessibile etica del Boia i prigionieri non vanno freddati, ma condotti alla forca. Nel frattempo si può loro rompere il naso, riempire di calci, picchiare a volontà. Daisy Domergue sembra meritarselo, tanto più quando si ribella alla necessità di viaggiare nella stessa carrozza con il “negro” Warren. Il boia invece accoglie il Maggiore, soprattutto perché porta con sé una lettera in cui si evince una familiare intimità col presidente Abraham Lincoln. Forse è solo per rileggerla (si erano incontrati qualche mese prima) che Il Boia ammette sulla diligenza il Maggiore, di lì a poco affiancato da Chris Mannix (Walton Goggins), ottuso ribelle sudista, anch’egli rimasto senza cavallo in mezzo alla neve. Strana congrega tallonata da una bufera. Tra parolacce e insulti, volgarità e slang, ci si chiede se tra il nordista nerissimo e il sudista bianchissimo ci sia un’inedita intesa per soffiare il boccone Daisy a John Ruth. Intanto però il cattivo tempo costringe la diligenza a fermarsi all’emporio di Minnie (Dana Gourrier), provvisoriamente assente, dove alberga una squadra di avventori. Si tratta di un sedicente boia professionale, Oswaldo Mobray (Tim Roth), un mandriano diventato da poco scrittore con la faccia da serial killer, Joe Gage (Michael Madsen), il gestore ad interim dell’emporio, Bob “il messicano” (Demian Bichir), il generale (sudista) Sanford Smithers (Bruce Dern), versione vigliacca del vecchietto del West inchiodato alla sedia.La preferenza di Tarantino sembra andare al maggiore Warren, semplicemente perché è il più astuto e il più bravo nel maneggiare le pistole, o perché ci vuole molto poco a essere migliori in uno scenario di cannibali che rispettano solo il clan. Comincia un gioco millimetrico tra squadre (nel meccanismo oliato di Bastardi senza gloria) in mezzo a un parapiglia di teste che saltano, vomitate scarlatte, braccia tranciate. Tarantino si trastulla lungo il confine tra morale e regole, che ciascuno tira come una coperta pro domo sua. Tra hateful, odiosi e carichi di odio, non c’è etica, sembra spiegare il regista che intanto versa pepe, polvere da sparo e fiumi di sangue. Ma è tutto già visto e la trama nemmeno tanto sottile.
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