Il Sudamerica degli umiliati e offesi nel bel film di Acevedo: l’ombra del sentimento strozzata dallo zucchero

Copre ogni cosa la polvere di In un Mondo fragile di César Augusto Acevedo. Non è mai generosa, che sia quella bianca che si alza da una strada di campagna o quella che cade dal cielo, come trucioli d’ebano, residuo dell’incenerimento di coltivazioni intensive della canna da zucchero. Penetra ovunque e malamente anche nei polmoni del giovane Gerardo (Edison Raigosa), al punto da costringere un padre, da lungo tempo lontano, a tornare per raccoglierne forse gli ultimi respiri.


Siamo in un Paese imprecisato di un ovunque sudamericano, dove le multinazionali creano monocolture e strozzano i piccoli contadini che da proprietari si trasformano in braccianti a cottimo delle terre vendute sotto ricatto. La fattoria in cui si reca Alfonso (Haimer Leal) potrebbe essere in Colombia, Paese di origine del regista, classe 1987, che con questo primo lungometraggio ha conquistato la Caméra d’or, il più prestigioso riconoscimento a un’opera prima al festival di Cannes (passaporto per un bel futuro cinematografico). O un qualsiasi luogo di quel continente umiliato e offeso su cui ultimamente il cinema punta lo sguardo, premiandolo: a Venezia il venezuelano Lorenzo Vigas si è aggiudicato il Leone d’oro per Desde allà
e l’argentino Pablo Trapero quello (meritatissimo) d’argento per El Clan.

La macchina da presa sorprende Alfonso avanzare in fondo a una strada tra steli altissimi di piante verdi e mentre la figura prende spazio, a un certo punto l’inquadratura fissa viene oscurata da una nuvola color sabbia, alzata dal passaggio di un camion. Quando il pulviscolo si deposita, si riescono a distinguere meglio le fattezze dell’uomo: abiti semplici che coprono il corpo segaligno, un viso dignitoso cui si appoggiano i segni dell’età, nonostante baffi e capelli siano tenacemente corvini. Il primo contatto con la casa che ha abbandonato quindici anni prima è con un bimbetto, Manuel (José Felipe Cárdenas), cui si presenta come nonno. Vicino al letto di Gerardo incontra Esperanza (Marleyda Soto), giovane moglie del figlio, che lo accoglie con il rispetto che si deve al padre del marito. Un atteggiamento che la suocera Alicia (Hilda Ruiz) non mancherà di rimproverarle. Alicia è nodosa, curvata dalla fatica, neghittosa verso l’esistenza intera. Fiera, ha resistito, non si è fatta vincere dalle multinazionali, ma ha perso Alfonso e ora questo sua attaccamento disperato alla fattoria rischia di condannare il figlio alla morte e all’insalubrità la nuora e il nipote.
Sono informazioni che si captano a poco a poco per sottrazione, durante i pasti messi insieme dalle due donne. Don Alfonso sopporta il biasimo del figlio malato, di quella che era stata sua moglie, del nipote che lo disapprova per induzione. Anche il piccolo è stato educato alla rinuncia: «Non aprire le finestre», ammonisce il nonno, quando Alfonso cerca di rischiarare la casa tappata per tutelare Gerardo (la fotografia di Mateo Guzman asseconda il buio e la claustrofobia, infilandoci anche lo spettatore). L’uomo ubbidisce anche se sa che quel sigillare i pertugi non è solo una cautela nei confronti di Gerardo, ma la rinuncia rabbiosa di Alicia alla vita. Solo la nuora è compassionevole, riconosce in Alfonso uno spiraglio verso la salvezza e il futuro, costretta com’è a campare nella cenere con Alicia, implorando un lavoro nelle piantagioni che contaminano la loro salute. Alfonso vede le insidie dell’inferno a cui Alicia si è assuefatta, continuando una battaglia che l’ha ampiamente sopraffatta. Compra un aquilone al nipote per il compleanno, gli insegna a riconoscere il verso degli uccelli come aveva fatto con Gerardo da piccolo sotto l’unico grande albero risparmiato dalle canne da zucchero. Quell’ombra è il luogo della confidenza – il titolo originale del film è La tierra y la sombra, La terra e l’ombra – , in cui riesce a conquistare la fiducia di Manuel e sotto cui il figlio, come un Lazzaro, esce con il lenzuolo in testa in segreto dalla madre e dalla moglie per scaldarsi di aria e di compagnia. Questa lenta e laconica ricostruzione del sentimento ricorda – a tutt’altre latitudini – Il ritorno di Andrej Zvjagincev, Leone d’oro a Venezia nel 2003. Là un padre reduce dal carcere si appropria ruvidamente del suo ruolo nei confronti dei due figli. Alfonso, invece, ha davanti due generazioni con cui fare i conti. Hanno metodi opposti, ma usano entrambi istintualmente il canale del contatto viscerale con la Natura; senza spiegazioni e con caparbietà. Nel Ritorno la violenza è contro i figli per insegnare loro che la vita è dura, nel Mondo fragile l’aggressività si sfoga contro il dottore che non vuole ricoverare Gerardo nonostante le condizioni disperate. In lotta contro il sistema, come fanno i contadini senza paga, ribellandosi al caporione.
Acevedo tocca tante corde: quella ambientalista, quella sindacale, quella introspettiva. Lo fa con grande sapienza, con una macchina molto fissa, fatta per lo più di campi lunghi e lunghissimi, lontano da certo montaggio sincopato che ci ha regalato l’ultimo bellissimo film del quasi coetaneo sudamericano Trapero. A volte indugia troppo su questo suo rigore, ma regala scene indimenticabili, sapendo dire con le inquadrature cose che le parole non possono: quando Alfonso ripara con le mani il gelato di Manuel dal polverone sollevato da un camion. O quando sorprende il piccolo e Gerardo sotto un lenzuolo come un velo di pudore sul destino che li attende.
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