Mommy di Xavier Dolan ricorda la “sregolatezza ragionata” di Rimbaud che fa da sottofondo al film di esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca (1965). Entrambe le pellicole, quella del 25enne canadese e quella dell’allora 26enne piacentino, sono un magma di energia distruttiva attraversate da una vena anarcoide: esplosiva, estroflessa, rozza ma brutalmente vitale la prima; implosa, cinica, composta, nichilista secondo la lezione degli Indifferenti di Moravia quella di Bellocchio.
Tutte e due le storie sono dominate dalla malattia mentale che nel 1965 si incanalava in una rivolta contro le istituzioni in generale e la famiglia in particolare, quasi il prologo di ciò che sarà il Maggio di lì a tre anni. In Mommy a essere in discussione è sempre il sistema, ma l’intento non è demolitorio, anzi: la rabbia cieca è un sintomo per richiedere attenzione, affetto, inclusione.
La pellicola si apre con Anne Dorval, che riveste con grandissima bravura la figura della madre, Diane “Die” Després, mentre va a riprendersi il figlio Steve (Antoine Olivier Pilon) in una casa di recupero per minori. Ma Dolan tira il primo pugno in faccia allo spettatore non appena si abbassano le luci in sala: avvisa che esiste una legge in Canada, dove la storia è ambientata, che permette ai genitori di internare i propri figli in una casa di cura senza necessità di esami e perizie. Poi la macchina da presa indugia sul fisico di Die, donna adulta e piacente, che addobba il corpo longilineo con un fragore di borchie, minigonne inguinali, tacchi senza sconti. Poco dopo la vediamo davanti alla direttrice dell’istituto: guardinga, attendista, tattica nel capire se esistano margini per evitare di riportarsi a casa Steve. Dolan ci imbocca l’idea della madre negata, ma è un inganno. È abile nel tracciare il puzzle dei pregiudizi che sconfessa piano piano, nutrendoci di piccoli indizi, a partire dall’incidente stradale di cui Die è vittima nel tragitto che la porta al riformatorio: uno dei tanti colpi bassi che la vita le infligge.
Dolan ci prepara a una donna volgare e anaffettiva, ma presto fa ingresso la leonessa, pronta a far da scudo a un indifendibile figlio che ha appena incendiato la mensa della scuola per far male a un compagno. L’indugio che Die ha nel riprendersi Steve sarà soltanto quello di una donna realistica, che ha paura di una forza non in grado di contenere.
Sappiamo che Steve è affetto da una sindrome, non meglio specificata, da deficit di attenzione, che non gli consente di porre limiti alla propria potenza, che lo fa sfiancare in girotondi sfrenati col carrello nel parcheggio di un supermercato o in un ballo sulle musiche di un cd registrato dal padre, mancato quando era bambino. O in una violenza incontenibile che scatena nel razzismo contro un tassista di colore o contro la madre, figura con cui ha una relazione esasperata. Un legame che Steve vive in maniera estrema, passando dal desiderio sessuale, alla richiesta fanciullesca di essere protetto o di proteggere.
Simile al rapporto di forza che Dolan aveva sviscerato nel bel Tom à la ferme (2013), in cui però intensità e ferocia erano indirizzati su un piano omoerotico, che qui non esiste. Tom à la ferme era passato alla Mostra del cinema di Venezia senza aggiudicarsi nemmeno un riconoscimento. Un’occasione mancata che invece non si è fatta sfuggire il festival del cinema di Cannes dove Mommy ha vinto il premio della Giuria (ex aequo con Godard), rendendo giustizia alla genialità, forse ancora da limare e imbrigliare, ma che emerge indubbia in questa pellicola. Soprattutto per il coraggio di tornare sulla figura materna, riuscendo a raccontare qualche cosa di nuovo, nonostante la scommessa già vinta con il film d’esordio, J’ai tué ma mère, girato nel 2008 quando non aveva nemmeno vent’anni. Opera autobiografica in cui si tratteggia (ne è anche protagonista) come un adolescente difficile, alle prese con la sua omosessualità e un rapporto genitoriale burrascoso.
Ha rischiato anche nel volere nuovamente accanto Anne Dorval e Suzanne Clément, che qui è la dirimpettaia con un ruolo maieutico per Die, Steve e per se stessa. Poco si sa di lei, salvo che è un’insegnante in anno sabbatico e che tartaglia in seguito a un trauma, di cui non si parla mai. Dolan è abilissimo a rendere i non detti, cifra dei maestri, mentre, all’opposto, la dichiarazione iniziale, che prepara alle più infauste attese, non inficia la tenuta della storia. Complice anche il formato quadrato che non lascia tregua agli attori, sempre addosso a frugare gli angoli della bocca, la mobilità degli occhi, l’indugiare delle mani. Una resa ancora più sorprendente visto che il regista canadese, al suo quinto lavoro, dichiara di non aver alcuna cultura cinematografica o letteraria, che i suoi punti di riferimento sono blockbuster come Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus o Batman il ritorno (1992) di Tim Burton. Senza snobismo o desiderio di atteggiarsi, quasi intimidito con un paio di jeans ricamati con fiorellini, giacca a quardroni, camicia fantasia di tonalità scure – ha spiegato che il cinema è la sua vita e che l’unica urgenza è quella di mettersi nuovamente dietro la macchina da presa.
Quello di Dolan è talento puro, rabbia per immagini, con la forza di chi si ribella con più vigore alle ferite della vita perché da giovani la pelle è meno spessa e il male più forte fa urlare a voce più alta. Forse è troppo pesante l’invasività della musica, o alcune scene sono eccessivamente cariche, ma Mommy crea un subbuglio emozionale genuino che rovescia la disperazione generando speranza.