Un gatto grigio va a trovare ogni tanto il postino Lyokha (Aleksey Tryapitsyn), steso sul letto durante le lunghe notti bianche che illuminano il villaggio sul Lago Kenozero, nel Nord della Russia. Il gatto guarda Lyokha dall’alto, su un armadio o dallo scendiletto o poco lontano dal suo naso, piazzandosi sul petto. Poi sparisce.
«Non voglio dire nulla su quel gatto», spiega Andrei Konchalovsky che incontra il Sole 24 Ore a Venezia, dove ha portato in concorso l’ironico e delicato Le notti bianche del postino, che ha buone chances di entrare nel palmares di domani. Nemmeno il riferimento a Il maestro e margherita del connazionale Bulgakov gli muove alcun commento. E’ fermo nel ribadire che lui ha fatto il film e che sta agli spettatori trarre le conclusioni. Minimizza anche il fatale e magico senso della natura che incombe nel film, in cui si racconta la storia di una comunità tagliata fuori dal mondo, se non fosse per l’opera del postino che porta lettere e pensioni e funge da anello di congiunzione con la civiltà. Quasi una figura paterna che vigila, provvede a fare da mediatore, a lenire i mali fisici e morali dei membri del villaggio.
Ammaliante la fotografia, sono quasi magiche le forme delle increspature dell’acqua nel lago, mentre campi lunghi rivelano casette di bambole e paesaggi fatati. Ma il regista di nuovo rifiuta di aver voluto infondere una nota quasi magica alla sua opera, legata all’incanto dei luoghi.
«Abbiamo deciso di girare nella regione di Arcangelo solamente perché abbiamo riconosciuto in Aleksey Tryapitsyn il nostro protagonista. Non volevamo attori professionisti. Abbiamo fatto il cast a oltre cinquanta persone in tutta la Russia e vedendo come Aleksey agiva con le persone del villaggio abbiamo capito che dovevamo seguire lui».
Nell’intento del regista russo – che vide iniziare la sua carriera proprio al Lido quando “L’infanzia di Ivan di Tarkovskij”, di cui Konchlovsky aveva scritto la sceneggiatura, vinse il Leone d’oro – c’era la volontà di affiancare i passi di un postino, di documentare con il suo peregrinare la salvezza di molti villaggi russi (oltre 34mila non hanno più di 10 abitanti) .
E la scelta doveva quindi cadere su modalità e stile quasi documentaristici, come già per “La storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi”, “Asja e la gallina dalle uova d’oro”, “La casa dei matti” (Leone d’argento alla Mostra del cinema nel 2002).
«Sapevamo cosa doveva accadere, ma non c’era una sceneggiatura. Abbiamo seguito Aleksey mentre si relazionava con i membri del villaggio, che conosceva da anni». Tra i protagonisti ci sono Victor Kobolov, detto il bombolone, dedito all’alcol, come lo era stato Lyokha anni prima; Victor Berezin nei panni di Vitya il Marinaio, Iury Panfilov che nel film è Yura. Gli unici attori professionisti sono Irina Ermolova, la donna di cui Lyokha si innamora, e il figlio di Irina Timur Bondarenko, dolcissimo compagno di giornate di Lyokha.
Tutti recitano se stessi, seguendo un canovaccio fatto di pochi fatti essenziali: il furto del motore alla barca di Lyokha, che compromette seriamente la possibilità di esercitare il mestiere di postino. Il resto di questo film pieno di ironia e sensibilità, bellezza e tristezza assieme, lo fanno i ritmi della comunità, nei problemi a procacciarsi il cibo, sotto la dura scure della legge che non è uguale per tutti, nell’isolamento cui è condannata.
«Abbiamo filmato i protagonisti con il tablet. Abbiamo ore e ore di girato. Poi abbiamo scelto e montato. Questa è la vera frontiera del cinema: i giovani possono fare cinema senza alcun costo. E’ la libertà del futuro».
Quindi con le nuove tecnologie si può dire la verità, e magari sconfiggere anche le dittature. Non accetta provocazioni e taglia corto: «Se ci sono. In Russia non ci sono dittature».
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