Jugonostalgia su quattro ruote: il nuovo libro di Miljenko Jergovic´
«Volga Volga» chiude la trilogia dell’autore bosniaco sui motori. Un affresco dell’ex Paese
attraverso personaggi contraddittori, quanto la terra, ora rimpianta, distrutta dalla guerra
Ecco la recensione apparsa oggi sul domenicale
di Cristina Battocletti
Anche quando improvvisamente aziona il freno a mano per un testacoda, Miljenko Jergovic´ guida la sua Volga con una padronanza tale da regalare al passeggero lo stupore di un giro in giostra. "Volga Volga" – il cui titolo richiama la commedia di Grigorij Aleksandrov del 1938 – chiude in gran bellezza e distanza quella che (per ora) è la trilogia assieme a "Buick Riviera" (Scheiwiller, 2004) e "Freelander" (Zandonai, 2009) dello scrittore bosniaco dedicata ai motori. "Volga Volga" è una crociera nella storia dell’ex Jugoslavia, dalle origini della repubblica socialista agli albori della guerra che ha frantumato il Paese. Al volante della berlina sovietica c’è un’autista dell’esercito jugoslavo, Dželal Pljevljak, uno degli apparenti loser (piacerebbe molto ai fratelli Coen), che Jergovic´ ama mettere al centro dei suoi affreschi.
L’Europa aveva conosciuto questo intellettuale dalla criniera sovrabbondante e gli occhi elettrici per la raccolta di racconti "Le Marlboro di Sarajevo" (Scheiwiller, 2005 e prima Quodlibet, 1996), pubblicata a Zagabria nel 2004, anno in cui l’autore si era trasferito nella capitale croata per sfuggire all’assedio che dal 1992 strangolava la città natia. Il volume – vincitore del premio tedesco «Remarque» –, ora introvabile (auspichiamo una ristampa), è un compendio di feroci pugni allo stomaco, in cui il conflitto balcanico fa da sfondo ai protagonisti bislacchi, sulle cui vite Jergovic´ apre uno squarcio di quotidianità infettata dalla morte incombente. Qui fa capolino la prima automobile, un maggiolino, oggetto di culto per il proprietario speranzoso che le granate colpiscano la casa piuttosto che l’auto. Solo nelle righe finali la guerra prende sostanza: «In questa città, oltre alla gente trucidata e scannata, oltre alle case distrutte e all’infanzia dimenticata, non ci resta più niente, salvo, forse, un sacco di carne viva che si nutre del dolore per le piccole cose perdute e che, dinnanzi alle cose grandi della vita, trema, come il motore prima di spegnersi». Claudio Magris, che scrisse la prefazione al libro, intuì subito la stoffa dello scrittore di razza – anche grazie all’ottima traduzione dell’agente, amica e sodale Ljiljana Avirovic<HS-3>´ – nel respiro breve e volutamente interrotto dell’opera. Respiro che ora è diventato ampio, senza mai rinunciare alle sterzate visionarie.
Classe 1966, poeta, sceneggiatore, giornalista, Jergovic´ è un autore a cui il successo internazionale – tra i riconoscimenti anche il «Grinzane Cavour</CF>» nel 2003 con "Mama Leone" (Scheiwiller, 2002) – non ha smorzato il sarcasmo e l’ironia di fiele, che riserva prima di tutti a se stesso, o il gusto della provocazione, per cui non trascura mai di attaccare lo sciovinismo della nazione di adozione, la Croazia, che pur ama. In "Volga, Volga" la federazione distrutta viene in luce nella bellezza e varietà del paesaggio, nei valori promossi da Tito, bratstvo i jedinstvo, fratellanza e unità, coltivati con lo spionaggio capillare del vicino contro vicino (L’Ozna è stata una grande fonte di occupazione) e dall’internamento nei lager, su tutti Goli otok.
"Volga Volga" è un puzzle la cui trama rivisita il passato come se fosse un caleidoscopio: Jergovic´ presenta un personaggio, lo dipinge e lo incastona nell’economia della storia, per poi svelarne una natura opposta. Ognuno ha in sé le contraddizioni della terra in cui vive, cioè non è mai come appare a un primo sguardo. Dželal ci viene presentato come un uomo solo, che nella vita ha tre punti di riferimento maschili: il generale Musadik Karamujic´, cui fa da autista e che gli regalerà la Volga, l’imam Haris Masud e Osman Fatumic´, che vede in Dželal il figlio prediletto, nonostante sia il patriarca di una famiglia numerosa. Conosciamo Pljevljak nella sua ossessiva perseveranza nel percorrere ogni venerdì i 116 chilometri che separano Spalato a Livno. Qui frequenta la moschea, abitudine tollerata sotto il regime laico solo per intercessione del generale Karamujic´. Scopriamo a poco a poco che il protagonista ha avuto una famiglia, una moglie bellissima e una figlia, finita al centro di un triste evento di cronaca. Non solo, lo vedremo colpevole (sarà proprio così?) di un efferato incidente automobilistico su cui la stampa accenderà i riflettori per fomentare gli scontri etnici (che fino ad allora avevano il tenore di beghe condominiali), riscaldando i motori della guerra. Haris Masud sembra l’unico in grado di capire Dželal per via del suo stato di profugo palestinese, con casa e famiglia bruciate da un razzo inviato da Nasser. A insinuare un dubbio sulla sua identità si affaccia la storia di un giovane jugoslavo, menomato nel fisico, dall’intelligenza vivissima, in grado di imparare idiomi alla perfezione. Si sale poi a ritroso nel tempo con una descrizione epica del padre di Dželal, Abdul Rahman, capo degli ùstascia o del periodo in cui Fatumic´ era un cetnico (o no?).
In mezzo a tutto questo, Jergovic´ trova posto per raccontare un esempio di protocapitalismo jugoslavo, dovuto alla solerzia del fratello deforme di Dželal che apre il primo supermercato della federazione; un florilegio di citazioni religiose – i sette piani dell’inferno, al cui fondo si trova l’albero di Zakum, che genera le teste degli seitan, i diavoli –; la leggenda sulla costruzione di una Jugoslavia sotterranea e sull’inaccessibilità di un monte abitato da cavalli selvaggi. Sembrerebbe quasi realismo magico sudamericano, se dietro al gioco onirico di Jergovic´ non ci fosse l’alito costante della guerra e la malinconia mitteleuropea che lega autori diversi come Ivo Andric´, Danilo Kiš e Drago Jancar. Eppure, nonostante i continui colpi di scena e i cambi di passo, Jergovic´ riesce a mantenere in piedi la complicata impalcatura del racconto, che trasuda il rimpianto per il suo, mai rinnegato, ex Paese. Un tremendo attacco di Jugonostalgia, come lo definisce il poeta bosniaco Abdulah Sidran, che in "Il cieco canta alla sua città" (edizioni saraj, a cura di Piero Del Giudice, 2012) protesta: Tutto quello che è crollato, doveva crollare/dicono…i filosofi. Ma io – notorio imbecille –/non la penso affatto così.
RIPRODUZIONE RISERVATA
Miljenko Jergovic´, traduzione Ljiljana Avirovic´, Zandonai, Rovereto, pagg. 300, € 16,00