Scoppia la guerra con Lindon e Brizé: al cinema il 15 novembre un film importante sul lavoro in anteprima su Domenica

I lavoratori si sacrificano e i profitti aumentano, ma i dirigenti della Perrin Industries decidono comunque di chiudere la fabbrica per delocalizzare dalla Francia alla Romania. In guerra, titolo dell’ultimo film di Stéphane Brizé nelle sale dal 15 novembre, racconta il senso di umiliazione e di disperazione di 1100 persone, che rifiutano il licenziamento collettivo, impegnandosi in settimane di lotta.
Il cinema da sempre è stato vicino alle tematiche del lavoro, dal celeberrimo Charlie Chaplin avvitatore d’aria nella catena di montaggio di Tempi Moderni (1936) al documentario di Antonioni sugli spazzini, Nettezza urbana del 1948, ai filmati sulle produzioni industriali realizzati dal primo Olmi tra il 1953 e il 1961, La diga sul ghiacciaio, Tre fili fino a Milano e Un metro è lungo cinque. Ma negli ultimi anni è soprattutto la fiction a interessarsi del tema, come istanza sociale; basti citare Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne del 2014, I, Daniel Blake di Ken Loach (Palma d’oro a Cannes nel 2016), e, sebbene in modo trasversale, Il giovane Karl Marx di Raoul Peck del 2016. «Il problema non è tanto il lavoro, quanto la mancanza di lavoro – spiega Brizé al Sole 24 Ore -. Nella nostra società ci distinguiamo per il nostro impiego. Nel momento in cui ne veniamo privati veniamo spogliati anche del nostro ruolo sociale. Allora il mondo comincia a subire inevitabilmente una serie di disfunzioni. È responsabilità e compito di un regista diventare portavoce di un sentire e di una sofferenza psicologica collettiva».


Nel 2015 Brizé aveva girato La legge del mercato, in cui il protagonista Vincent Lindon era un disoccupato di 51 anni con forti problemi familiari, che entra in crisi proprio quando trova finalmente lavoro. In In guerra Lindon è un 50enne, il cui posto di lavoro è a rischio e che si batte con rabbia e passione per non perderlo. Lindon è l’unico attore professionista di un grande cast, che comprende centinaia di persone per riprendere le quali è stato necessario usare almeno tre macchine da presa, soprattutto nelle scene delle trattative che restituivano punti di vista diversi.

La sceneggiatura, firmata dallo stesso regista e da Olivier Gorce, è basata su un lavoro puntiglioso sulla parola. «Per poter mettere in bocca di ciascuno le frasi giuste, soprattutto nei momenti di conflittualità nelle negoziazioni e tra gli stessi lavoratori, abbiamo voluto incontrare tutti i protagonisti di vicende simili che coinvolgevano aziende multinazionali, a partire dagli operai, ai sindacalisti, agli avvocati che difendono i lavoratori, agli esperti di piani sociali e di ricollocamento, ai responsabili delle risorse umane e ai legali dei dirigenti, in modo da avere una visione globale prima di affrontare la scrittura. I dialoghi dovevano essere veri e circostanziati fin nei minimi dettagli, in modo che nessuno potesse risultare ridicolo, perché è la situazione a diventare grottesca, mai le persone. Con Gorce abbiamo elaborato la realtà portandola nella finzione secondo regole drammaturgiche, con momenti di suspense, aspettativa, delusione. La nostra riflessione è incentrata su come le parole possano essere utilizzate per giustificare una strategia. Una responsabile delle risorse umane, che mi ha pregato di non essere ringraziata nei titoli di coda, mi ha spiegato qual è il vocabolo utilizzato dai dirigenti per legittimare la chiusura di un’azienda: “competitività”. È la parola magica che sostituisce quella appropriata, “margine di profitto”, ovvero la volontà degli azionisti di staccare il dividendo più alto possibile, vera ragione della delocalizzazione.
Si annuncia: “Abbiamo un problema di competitività” e allora gli operai vengono messi in posizione di minorità, perché è colpa loro se non lavorano o non producono abbastanza in fretta. Per realizzare la migliore compenetrazione tra il testo, assolutamente preciso a livello semantico, e la capacità di espressione degli attori abbiamo deciso che gli operai fossero impersonati da veri operai, gli avvocati da veri avvocati e così via». Proprio per questo in alcuni momenti, spiega ancora il regista, si aveva la percezione netta che la lotta per salvare i posti di lavoro fosse vera. E così la vivono anche gli spettatori. L’unico neo in questo bagno di realismo, rafforzato dall’inserzione di (finti) reportage giornalistici, è forse l’assenza degli immigrati, una componente, a volte preponderante, che può creare solidarietà e fratellanze inaspettate o problemi. «Non nego che esista la questione, ma era necessario delimitare lo spazio, e concentrarmi sulla problematica della delocalizzazione».
A Cannes In guerra si è meritato l’applauso più lungo del festival con gli operai-attori, come Mélanie Rover, in lacrime. Qualche polemica inutile sull’estrazione alto borghese di Lindon, poco consona al ruolo nel film di rappresentante sindacale. Ma è stata cancellata dalla sua ottima interpretazione, all’altezza di quella sostenuta ne La legge del mercato per cui ricevette a Cannes il premio come miglior attore. «Quella sera gli operai hanno potuto godere di un’ovazione. Il pubblico ha reso omaggio a un’emozione forte e io e Lindon ci siamo concessi il diritto di prendere la parola su un tema fondamentale. Tutti devono avere la possibilità di esprimersi su un disagio collettivo».
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