25 anni senza Fellini: l’uomo, il fumettista, il regista

Moriva 25 anni fa il grande regista, fumettista e sceneggiatore, vincitore
di 5 Oscar, di cui uno alla carriera. Rese immortali la sua Rimini e l’Italia degli anni Sessanta

«Dovevo morire! Si conosceva anche la data, esattamente il 4 novembre 1961… Non sono addolorato, non ho paura, bisogna salutare gli amici, e soprattutto disdire gli appuntamenti». Così annotava Federico Fellini il 19 ottobre del 1961 nel diario in cui trascriveva, illustrandoli, i suoi sogni per Ernst Bernhard, lo psicoanalista junghiano di cui fu a lungo paziente. «Mi sembrava di salire su una mongolfiera», sottolineava Fellini per spiegare la sensazione che lo catturava quando si recava nello studio di via Gregoriana, dove Bernhard riceveva lui e altri intellettuali dell’epoca, come Vittorio De Seta, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Angela Zucconi. Un’esperienza fondante sotto il profilo personale e creativo, che volle fissare nella scena finale di 8 e ½ (1963): gli attori in cerchio sul sottofondo delle musiche di Nino Rota non sono altro che i pazienti, illustri e non, in viaggio su quella “mongolfiera”. Per fortuna il sogno di morte non ebbe riscontro a breve: il regista riminese fu stroncato da un attacco di cuore il 31 ottobre del 1993. Sembra inverosimile che siano passati venticinque anni senza Fellini. Manca la sua vena satirica, che aveva esercitato all’inizio della carriera artistica, come fumettista, sulla rivista «Marc’Aurelio». Manca il senso tragicomico dell’umanità minuta – che la commedia italiana dei giorni nostri per lo più esaspera in volgarità a sfondo campanilistico – , palpabile nel suo esordio alla regia con Alberto Lattuada nel 1950 in Luci del varietà, in cui compare già l’inseparabile compagna, Giulietta Masina, fonte di ispirazione e baricentro della sua esistenza. L’aveva conosciuta alla radio, quando lei recitava le scenette che lui scriveva con la penna salata dall’amarezza e dal cinismo, arricchita, a partire da Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953), da quella di Ennio Flaiano, e a cui si aggiunsero negli anni, tra le altre, quelle di Tonino Guerra, Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi. Allo stesso tempo sembra che Fellini non sia mai morto tanto il cinema attuale si scopre debitore della lezione della sua regia (basti pensare a La grande Bellezza di Paolo Sorrentino) o all’immortalità di certi personaggi, come la coppia Gelsomina-Zampanò (Giulietta Masina e Anthony Quinn) de La strada, due creature su un carrozzone, spettri del perdurante senso di incompiutezza del regista. Aveva modellato il film sul personaggio interpretato dalla moglie che sapeva, come nessun altra, interpretare gli stupori, le cupezze e l’allegria sfrenata dei pagliacci del circo, la cui morbida tristezza fu ingrediente pressoché onnipresente della sua immaginazione. La strada valse al regista l’Oscar come migliore film straniero nel 1957 (ne ricevette altri tre per Le notti di Cabiria, 8 e ½, Amarcord e uno alla carriera nel 1992), ma incontrò l’ostilità di parte della critica che gli contestava di aver rotto con il Neorealismo per abbandonarsi alla favola. Ma Fellini, come Bergman, Buñuel, Kurosawa, poteva permetterselo.


Manovrava e destrutturava la realtà, scavalcandola, arrestando il tempo con acrobati e trapezisti, tenendola in pugno senza perderla mai di vista, accompagnando per mano lo spettatore alla catarsi. Inviso a parte della sinistra, era amato da certa cultura cattolica per la sua spiritualità, nonostante la spinta visionarietà carnale, tollerata come un elemento ineluttabile perfino dalla Masina. Un erotismo che aveva allenato da ragazzo al cinema “Fulgor”, dove languiva il fantasma della tabaccaia, con quel sedere che pareva un mondo, il seno traboccante che restituiva un piacere quasi tattile. E la Gradisca, nome con cui venivano battezzate le figlie della Grande guerra, ricordando le battaglie conquistate e perse: Podgora, Gradisca, Maria Piave… Grazie ad Amarcord (1973) si liberò da un demone, quello della città d’origine che ormai non sapeva più di cellulosa, pomate e brillantina. Sbriciolata sotto le bombe assieme alle scritte del duce sui muri, si era trasformata in un iper negozio di cianfrusaglie aperto ventiquattr’ore. Imprigionò in Amarcord la Rimini delle biciclette sdraiate sulla spiaggia, delle ciccione in acqua d’estate, che da lontano sembravano trichechi galleggianti, del Grand Hotel che pareva il prolungamento di Bagdad e finalmente poté trovare pace dello scempio postbellico. Il suo osservatorio diventò Roma nelle molte notti passate in giro in auto, tenuto sveglio dalle sue inquietudini. Dall’insonnia fiorirono Le notti di Cabiria (1957), con la Masina prostituta clownesca e tragica; La dolce vita (1960, Palma d’oro a Cannes), nata dalla suggestione di una donna che camminava in un mattino luminoso lungo via Veneto, infilata dentro a un vestito che la faceva somigliare a un ortaggio. Fellini setacciava la capitale con gli occhi dello straniero: era un pianeta brulicante di suore, di femmine provocanti, come Sylvia- Anita Ekberg, la prima donna del creato. Qui l’alter ego e attore feticcio, Marcello Mastroianni, trascinava il suo tormento di uomo e artista dai superattici del boom economico ai seminterrati dei papponi di periferia, passando per la magniloquenza di certe chiese, facendo i conti con l’inconscio, il corpo femminile e il femminismo (Giulietta degli Spiriti, 1965, La città delle donne, 1980). Un viaggio in astronave che mantenne nitore e originalità fino agli anni Sessanta. Poi, fatta eccezione per Amarcord, l’incanto primigenio non si rinnovò ne E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), La voce della luna (1990). Fellini non rivedeva mai i suoi film. Gli sembrava di rovistare tra le bende sporche di una ferita. «Quando un amico mi parla di un mio film, ho un soprassalto, come se avessi scoperto di non pagare le tasse o come se fossi venuto a sapere che il marito di una bella signora aveva d’un tratto scoperto tutto della nostra storia».
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