Cannes ’71: Palma d’oro alla famiglia irregolare di Hirokazu Kore-eda. Agli italiani sceneggiatura e attore

Si temeva fino all’ultimo che alla 71esima edizione del festival di Cannes dovesse trionfare il politically correct: la Palma assegnata a una donna con una giuria a maggioranza femminile e una presidente battagliera come Cate Blanchett. E invece ha vinto il cinema con Un affare di famiglia di Hirokazu Kore-eda, una pellicola di rara omogeneità e bellezza, gentile e ironica analisi del mondo infantile che tanto sta a cuore al regista giapponese, come ha dimostrato con Father and Son (2013) e Little sister (2015). Un affare di famiglia racconta la parabola dei Shibata, composta da piccoli taccheggiatori da supermercato, giocatori d’azzardo, ballerine di locali equivoci. Dileggiando l’ossessiva formalità nipponica, Kore-eda ci suggerisce che i legami affettivi sono spesso più forti e veri di quelli di sangue: nella baracca della famiglia Shibata c’è molta più umanità di tanti altri nuclei rispettabili.
Il grand Prix se l’è aggiudicato BlacKkKlansman, un film divertente e militante come il suo regista, Spike Lee, che ha dedicato il riconoscimento alla gente di colore. La pellicola, tratta dal libro Black Klansman, scritto dall’ex poliziotto Ron Stallworth, racconta di come lo stesso autore, impersonato da John David Washington, si sia intrufolato, nero come la pece, nella divisione del Ku Klux Klan di Colorado Springs, facendosi scudo del collega ebreo Flip Zimmerman (Adam Driver). Il film è vivace e suscita molta ilarità per la situazione di paradossale stupidità dei razzisti, ma sono altre le opere della sterminata produzione di Spike Lee, come Malcolm X (1992) e La 25ª ora, che rimarranno nella storia.


Il premio giuria è invece andato a un film molto intenso nella prima parte, ma fortemente retorico e ricattatorio nella seconda: Capharnaum di Nadine Labaki. Siamo in Libano e Zain (Zain Al Rafeea) è un piccolo detenuto che chiama davanti alla corte i propri genitori: li vuole denunciare per averlo messo al mondo. Con un lungo flashback la regista di Caramel (2007) – cartolina di Beirut vista dalle donne -racconta le condizioni di estrema indigenza in cui vive la popolazione del mondo arabo, che non ha altro privilegio che quello di riprodursi, senza nemmeno avere il denaro per registrare i propri figli. Grazie all’estrema espressività di Zain, che nella realtà è un profugo siriano, Labaki spiega la disperazione dovuta all’analfabetismo e alla povertà che costringe le bambine a sposarsi a 11 anni e i bambini a diventare venditori ambulanti, invece di frequentare la scuola. La solidarietà arriva solo dai diseredati: quando Zain scappa di casa ad aiutarlo è una rifugiata etiope, Rahil. Vi sono momenti di bellissimo cinema, come quando attraverso alcune tracce Zain viene a conoscenza del menarca della sorella e delle conseguenze che questo può avere nella sua vita, ma poi indulge a situazioni eccessivamente melodrammatiche, aiutate anche dalla musica di Khaled Mouzanar, che ha firmato assieme alla regista la sceneggiatura.
Un incendio quello del Medio Oriente, Sherazade perduta, che ha raccontato anche Il libro delle immagini, Palma d’oro speciale, voluta da Blanchett, tributata a Jean-Luc Godard. Lungamente applaudito, nonostante la sua assenza, accolto con la devozione che si deve a un profeta, il regista ha consegnato un film che è un’installazione, un discorso per immagini tratte da filmati di repertorio, vecchie pellicole, spezzoni di telegiornale che hanno raccontato il mondo, secondo la visione del regista. Una continuazione del suo precedente Addio al linguaggio (2014), perseverando in un atteggiamento di sfiducia totale verso l’uomo, in cui la violenza è un impeto indomabile più forte della ragione e in cui nemmeno il linguaggio – la cui impotenza è resa attraverso l’asincronia del suono rispetto al discorso – può nulla.
Infine sono arrivati i riconoscimenti per l’Italia di Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, ma molto minori di quelli sperati. Roberto Benigni ha consegnato il premio come migliore interprete maschile a Marcello Fonte, protagonista di Dogman di Matteo Garrone, che prende spunto da un fatto di cronaca, il delitto del Canaro: l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, avvenuto nel 1988 a Roma per mano di Pietro De Negri, detto er canaro (vedi sopra la recensione di Roberto Escobar). Marcello è un uomo gracile, con un viso antico e un’espressività rara, in cui un giorno, a suon di umiliazioni, si sprigiona la stessa forza bestiale con la quale ogni essere umano, anche il più mite, è obbligato a fare i conti. La potenza del film di Garrone sta sì nell’interpretazione di Fonte, ma soprattutto nelle immagini pittoriche, che trasformano un fatto di cronaca in una favola noir. La capacità visionaria e soprannaturale di Garrone avrebbe meritato di più.

Come anche Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, cui sta stretto il riconoscimento per la sola sceneggiatura. Rohrwacher ha raccontato un’Italia magica, ancestrale, quasi ingenua nelle sue pieghe nere, usando l’onirismo di Zavattini e De Sica. Quello di Alice Rohrwacher è un film speciale che sarebbe piaciuto molto a Olmi, per il contesto spirituale, francescano e agreste che racchiude in sé. Riporta alle atmosfere che la regista ha vissuto da bambina in Toscana, a un mondo rurale, congelato all’epoca della mezzadria – che è esistita per legge fino agli anni Ottanta -, che resiste ancora solo nelle proprietà della marchesa, Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), tiranna e sfruttatrice, con un figlio debosciato, Luca Chikovani, che intenta il proprio sequestro per godersi il riscatto. Su questo medioevo cristallizzato – riportando Elsa Morante, citata dalla regista – spicca Lazzaro (Adriano Tardiolo) che lavora come se le forze non avessero fine. Senza padre, né madre, è figlio della comunità, ha una fiducia incondizionata nel prossimo. Un atteggiamento che lo rende spesso vittima anche dei contadini che ricordano, anche se in versione meno crudele, gli straccioni di Viridiana di Luis Buñuel, vincitore della Palma d’oro nel 1961. Rohrwacher non dà un giudizio morale, prende atto amaramente della verità delle parole della marchesa sul loro conto: rimangono comunque gli ultimi della società, anche quando d’un tratto vengono liberati e portati alla contemporaneità. L’unica differenza è la presa di coscienza del loro stato di marginalità.
L’orgoglio di questo premio è di condividerlo ex aequo con Jafar Panahi, assente perché in libertà vigilata dal 2010 per aver partecipato ai movimenti di protesta contro il regime iraniano. 3 facce è un meta-film come Taxi Teheran (Orso d’oro a Berlino nel 2015), in cui l’attrice Behnaz Jafari e lo stesso Panahi interpretano loro stessi: cercano di salvare una giovane ragazza, cui è stato impedito di fare l’attrice dalla famiglia, dal commettere un suicidio. Un viaggio nell’entroterra racconta di un povero popolo, schiacciato da un regime che lo vuole confinare nell’ignoranza e nell’arretratezza.
Il premio della Giuria è andato a Pawel Pawlikowski per Cold War, che racconta una storia d’amore tra due artisti polacchi, divisi dalla cortina di ferro. Un bianco e nero elegante, una recitazione perfetta, ma la storia d’amore, che poi è quella dei genitori del regista, non buca come quella di Ida. La storia della suora che riscopre le sue origini ebraiche aveva un tocco di mistero e non detto che manca all’ultimo lavoro di Pawlikowski. Infine il premio per la migliore attrice è andato a Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy, che con il regista aveva già girato Tulpan, la ragazza che non c’era (2008). Giusto riconoscimento per la straziante interpretazione di una donna kirghiza che abbandona il suo bambino per estrema povertà.