Cannes ’71: la favola noir del Canaro di Garrone conquista Cannes

Il muso di un cane ringhia e abbaia a tutto schermo, inferocito dalle catene che lo costringono. La voce di un folletto di età incerta, forse millenaria, che pesca sottoterra, tenta con dolcezza di riportare l’animale alla ragione, tranquillizzandolo. Inizia così Dogman uno dei film più belli di Matteo Garrone, in cui si mescolano con equilibrio commovente e mai retorico tutti gli elementi che ricorrono nel cinema del regista romano: il reale che diventa sovrannaturale e viceversa, la malavita, i perdenti, i luoghi così eccessivi nella loro bruttezza da acquisire un’estetica pregnante, gli animali.


Questi ultimi sono stavolta vivi e domestici, non più impagliati come ne L’imbalsamatore (2002). Dogman, letteralmente l’uomo dei cani, è una favola noir contemporanea, ispirata a un fatto vero, il delitto del Canaro: l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, avvenuto nel 1988 a Roma per mano di Pietro De Negri, detto er canaro. Il film è ambientato nel villaggio Coppola di Castel Volturno, gli stessi luoghi di Gomorra (2008), desolante litorale cementificato dove i bambini giocano in mezzo allo spaccio e alla criminalità di piccolo taglio: per lo più rapine e furti. Marcello (Marcello Fonte) è un uomo gracile, con un viso antico e di un’espressività di rara. Vive i suoi giorni nel negozio dove si occupa della toelettatura e l’accudimento soprattutto di cani, su cui svetta all’americana l’insegna “Dogman”.

Arrotonda con un micro spaccio di cocaina, ruoli improvvisati in piccoli crimini ed è ben voluto dalla comunità locale, fatta di commercianti di quartiere: il barista, il ristoratore, il compraoro. Con loro condivide i pasti e un codice etico che ha poco a che fare con la legalità. L’affetto più forte di Marcello è la figlia, Alida (Alida Baldari Calabria), che viene a trovare il padre, separato dalla madre, a cui trasmette la passione per gli animali. La vita scorre tranquilla fino a quando entra in scena Simoncino (Edoardo Pesce), un delinquente corpulento, la cui condotta brutale e istintuale subisce un’impennata di violenza che non risparmia nemmeno gli amici. E’ cieco e sordo a qualsiasi regola di convivenza comune, agisce per soddisfare il desiderio immediato, soprattutto quello della cocaina. La comunità degli amici comincia a isolarlo, ma non Marcello che subisce la sua prepotenza e soprattutto il suo fascino cui si sottomette, fino a prendersi un anno di galera per non tradirlo. Al ritorno dalla prigione Marcello subisce l’isolamento e quasi il linciaggio del paese, ma soprattutto viene ignorato da Simoncino che non gli accorda la gratitudine e il rispetto (e i soldi) che Marcello si aspettava da lui. Gli riserva la stessa indifferenza cieca e disprezzo che il mondo criminale ha nei confronti dei deboli e gentili d’animo, perché è quest’ultima qualità, nonostante l’attività microcriminale, a distinguere Marcello da tutti gli altri. La grandezza di Garrone sta nel non mettere mai in urto l’ingenuità e la purezza d’animo del suo protagonista con la sua condotta di vita paradelinquenziale, che segue un sistema di regole in cui è cresciuto. Marcello ricorda la naïvité e il senso di ammirazione che Valerio prova nei confronti del Profeta nell’Imbalsamatore; di quest’ultimo Marcello porta una certa originalità fisica, che lo distingue per la sua esilità; mentre la forza indomabile e irragionevole di Simoncino ricorda l’Orco del capitolo sulla pulce del Racconto dei racconti (2015). Rispetto a questa pellicola vi è meno forza visiva data dalla bellezza di luoghi e costumi, ma Dogman recupera nella potenza dei volti, restituendo l’umanità profondissima che convive con la violenza che annoda ogni aspetto della vita. Gli autori – gli stessi di Gomorra, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone – creano una struttura circolare in cui Marcello si ricongiunge, suo malgrado, col cane che abbaia all’inizio del film: la lotta di un uomo mite con il suo aspetto bestiale.