Gli sdraiati è una riuscita commedia agrodolce di Archibugi: generazioni l’una contro l’altra armate con amore

Ci sono buone ragioni per pensare che Gli Sdraiati di Francesca Archibugi diventi un riempisala, fronteggiando anche il cinepanettoncino anticipato napoletan-torinese, Caccia al tesoro di Carlo Vanzina, con tanto di San Gennaro. Gli sdraiati anzitutto può contare sul richiamo al successo dell’omonimo bestseller di Michele Serra (Feltrinelli, 2015) da cui è stato liberamente tratto, e sul fatto che attira due filoni di pubblico su cui il botteghino fa molto affidamento: gli over quaranta e gli adolescenti, che sebbene affezionati soprattutto al vampiresco e al soprannaturale, possono facilmente rispecchiarsi nella lotta tra il diciasettenne Tito (Gaddo Bacchini), studente di liceo classico, e il padre Giorgio Selva (Claudio Bisio), noto giornalista e conduttore televisivo. Attorno alla coppia, in forzosa convivenza per metà settimana dopo il divorzio tra Giorgio e la madre di Tito, Livia (Sandra Ceccarelli), scorrazza la banda dei “froci”, come si autodefiniscono Pippo (Nicola Pitis), Yacco (Nicolò Folin), Boh (Gabriele di Grali) e Polonia (Massimo de Laurentis). L’inclinazione sessuale non c’entra, o c’entra solo in parte in quel periodo della vità in cui l’amicizia si fonde con l’amore e l’unica cosa che conta è stare sempre in banda, fumare e puzzare assieme, scambiarsi ogni cosa comprese le chiavi di casa, interdire le femmine dal clan.


Gli “sdraiati”, – Serra li definisce così per l’abitudine di guardare il mondo in posizione orizzontale, stravaccati sul divano – sono una generazione che si attacca al benessere dei genitori, come ci si allaccia abusivamente ai fili dell’elettricità altrui succhiando energia a scrocco. Smargiassamente trasandati nel vestire (Serra scrive: «La parte superiore del tuo vestiario è tutt’una, un multistrato che si compone vestendosi ma non si divide svestendosi»), perché la forma non è necessaria per sudarsi il pane. Ce l’hanno già ed è dovuto. Svuotano il frigo, saltano sul letto con i jeans sozzi, danno del tu a chiunque nella mancanza totale di timore reverenziale, irriguardosi di ciò che gli adulti si sono guadagnati con fatica e dignità, o dei dolori che necessariamente la vita ha loro inflitto. Non sono da meno i genitori che vomitano addosso ai figli una coltre di stress e nevrosi, subissandoli di chiamate al cellulare, che i teen agers gestiscono in comunità. Una mania di controllo con cui ripuliscono coscienze focalizzate attorno al proprio ombelico professionale e al proprio narcisismo, al desiderio legittimo e irreprimibile di seguire una nuova identità sentimentale che spesso scompone le famiglie da cui sono nati i figli. Come ha fatto Giorgio, l’“Esaurito”, così Tito lo ha ribattezzato nella sua rubrica telefonica. Ha diversi conti in sospeso Giorgio, uno con Rosalba Bendidio (Antonia Truppo), mamma di Alice (Ilaria Brusadelli), una compagna di classe molto speciale per Tito. Una maglia del passato venuta in rilievo a sorpresa, durante un colloquio al liceo, in cui quel che importa è ancora Giorgio stesso, le sue manie di persecuzione e i sensi di colpa, mentre il benessere del figlio è in secondo piano. Due generazioni, l’una contro l’altra armate della mancanza di reciproco rispetto, atterrate e atterrite. La famiglia, l’adolescenza sono universi in cui Archibugi nuota con delicatezza, senza aver paura di toccare i sentimenti in un’ottica anche fieramente femminile, mettendo mano al disagio con dolcissima ironia. Come ha fatto con la quindicenne aristocratica parigina trapiantata in una famiglia romana popolanissima in Mignon è partita (1988); o con la dodicenne Pippi (Alessia Fugardi), malata di epilessia, ne Il grande cocomero (1993) ; o convertendo la pièce Le Prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte in chiave italiota, infarcendola di pregiudizi e ipocrisie tutte nostrane. Una dei protagonisti de Gli Sdraiati è anche Milano, vista con gli occhi di una toscano-romana che non ha voluto incastonare la città nei soliti stereotipi (il Duomo, piazza Affari, il triangolo della moda, le case di ringhiera fiabeggianti), ma l’ha osservata come un animale nuovo e antico assieme. C’è la periferia, non come un covo di sociopatie, ma sfiorata con l’amorevole sguardo con cui l’ha colta nei suoi film Marina Spada: quartieri in cui si vive, si ama e si lavora. Nel fascino dei grattacieli di vetro fiammante, esclusivi ed escludenti; nel centro percorso selvaggiamente (e nella realtà solo idealmente) in bicicletta. Nello storico liceo Manzoni, fondato nel 1884, in cui l’esuberante e festosa folla degli studenti (di cui fa parte nella vita lo stesso Gaddo) accanto allo studio serissimo dà sfogo alla spinta ribellistica tra piercing e dreadlock nella normale illusione di essere i primi e gli unici ad aver contestato il mondo. Una materia tenuta insieme con intelligente lievità (si sente la penna di Francesco Piccolo accanto alla regista) e dalle performance di Bisio, Bacchini e Cochi Ponzoni (il nonno Pinin) sulla scia beffarda di Scialla! (Stai sereno), film di Francesco Bruni del 2011, e, ancora prima, nel 1997, Ovosodo di Paolo Virzì. Gli sdraiati è una commedia agrodolce riuscita, con dialoghi serrati e divertenti, sardonica verso il nostro autismo tecnologico. Sull’insipienza di una generazione che, trasformandosi in genitrice, inorridisce vedendosi invecchiare, rifiuta di dismettere il ruolo di figlia, deprivando i propri, di figli, del diritto di essere estremi: piccoli adulti che si approfittano del proprio status di vittime. Qualcosa è andato storto. Forse si può ancora riparare, sembra suggerire la regista.
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