A Venezia ’74 l’intervista a Ai Weiwei: “Il rifugiato per me è chi lascia un posto dove non riesce a sopravvivere”

Esce il 2 ottobre “Human Flow” di Ai Weiwei presentato oggi a Venezia in concorso. L’artista cinese ha realizzato un documentario in cui riprende la condizione dei rifugiati in 23 Paesi, dall’Afganistan alla Turchia, da Israele al Kenya


Che cos’è per lei un rifugiato?

Un rifugiato è una persona che si sente in pericolo e forzosamente deve lasciare la propria casa e andare in un altro luogo estraneo per salvaguardare la propria sicurezza e il proprio futuro. E’ una definizione degli inizi degli anni Cinquanta delle Nazioni Unite. Per me un rifugiato è anche chi lascia un posto dove non riesce a sopravvivere.

Come ha cambiato la sua vita questo film?

Ho raggiunto i 60 anni e niente davvero può cambiare la mia vita così profondamente. Per girare questo film la troupe ha comprato un’assicurazione perché si trattava di andare in zone pericolose. Io mi sono rifiutato affidandomi alla sorte. Sono nato che mio padre era rifugiato, era un poeta e noi siamo stati costretti a vivere in un posto di montagna per vent’anni e siamo cresciuti lì. Sin da quando ero molto molto giovane ho capito quanto in basso poteva arrivare l’uomo e ho compreso a fondo tutto quello che era sbagliato in quella barbarie. E non ci sono spiegazioni, tu lo accetti e basta, anche se le cose peggiorano.

E’ per questo che lei appare in prima persona?

Io faccio parte dei rifugiati e loro sono parte di me. Per me non è difficile essere come loro. E la loro condizione non mi provoca tristezza. E’ la vita e lo accetti. Spesso noi lo drammatizziamo, ma per molti di loro la vita è proprio quella e può andare avanti per generazioni.

Qual è stato il punto di partenza per i film?

Quando ero ancora in stato di detenzione, prima del 2015, non avevo il passaporto e non potevo viaggiare e ho mandato due persone del mio studio in Iraq per intervistare i rifugiati. Sono state fatte un centinaio di interviste, video e io ho scritto personalmente le domande per fare uno studio dettagliato sulla condizione dei rifugiati. Nel film ci sono sei persone di questa prima indagine. Ho bisogno di puntualizzarlo per far capire che l’idea che è sviluppata in questo film viene da lontano e lo precede, e non possono accusarmi di essere saltato sull’attualità. Non l’ho fatto nemmeno nelle più difficili circostanze in Cina, quando ero sotto sorveglianza, o sotto punizione. Per questo credo che quello che accade ai rifugiati in qualche modo è connesso a me.

La cosa più bella della natura umana è poter mettersi nelle condizioni altrui. Mi è accaduto quando avevo il blog nel 2005: mai avrei potuto pensare che qualcuno avrebbe potuto avere interesse per quello che succedeva a me. Penso sia la cosa più bella della comunicazione. Qualcuno da qualche parte sente la tua voce e la riconosce. Per questo ho realizzato questo film, ma mai avrei pensato di finire in un film festival. Un proposito utilitaristico del genere mi avrebbe avvelenato.

Ha visto altri film sull’immigrazione?

Ho cercato di non vederli. Soprattutto quelli di fiction e narrazione di casi singoli. Volevo che questo film fosse in un certo senso caotico. Alcune volte non riuscivo a controllarlo. Mostra quanto vulnerabile sia la mia percezione. Ma allo stesso tempo evidenzia anche la mia intenzione di affrontare la questione.

Le riprese fatte dall’alto fanno sembrare i rifugiati come insetti

Nel riprendere questo tipo di tragedie bisogna trovare un linguaggio per cui ho mischiato varie tecniche. Alcune volte il mio iPhone toccava il volto delle persone semi immerse nell’acqua, altre volte bisognava trovare un modo alternativo per afferrare o comprendere i loro sentimenti o stabilire il concetto di umanità da punti di vista diversi. E’ molto importante trovare il modo giusto per rappresentare quella realtà perché bisogna offrire il giusto immaginario per non tradirla