Venezia ’73: bello “Paradise”, riflessione sull’Olocausto. Piccioni esplora l’intimità femminile

Da quest’anno nella riserva del Lido i Leoni sono due (alla carriera): quello attribuito, all’inizio della Mostra, a un regista (Jerzy Skolimowski) e quello conferito a un attore, alla fine del festival. Così ieri la 73esima edizione della rassegna veneziana ha premiato Jean-Paul Belmondo. L’ottantatreenne, Borsalino con bastone, accompagnato da Sophie Marceau, ha ricordato la gioia di ritrovarsi a casa un telegramma di Vittorio De Sica che lo chiamava a interpretare Michele, giovane idealista antifascista, ne “La ciociara” (1960).
Bei tempi, quelli, per il cinema italiano, mentre ora non si fa che mugugnare come tra i nostri registi non ci siano più maestri. Così nel solito italico desiderio di darci addosso è passato tra i rimbrotti l’ultimo film nostrano in Concorso, “Questi giorni” di Giuseppe Piccioni. Con la sua consueta inclinazione alle storie intime (“Luce dei miei occhi”, 2001, “Il rosso e il blu”, 2012), il regista marchigiano ha raccontato l’Italia contemporanea con risvolto femminile: quattro ragazze, diversissime tra loro, amiche nonostante le diversità e tutte con un tormento che le logora. Caterina (Marta Gastini) è innamorata del professore (Filippo Timi) con cui discute la tesi e ha appena scoperto di avere un tumore; Liliana (Maria Roveran) è in cerca di lavoro e di placare la passione che prova per Caterina; Anna (Caterina Le Caselle) è una musicista, incinta del primo fidanzato in cui ha trovato riparo; mentre Angela (Laura Adriani) non riesce a troncare con un ragazzo che non la considera socialmente all’altezza di stargli al fianco. Fragilità e ipocrisie, solidarietà e affetto si ingarbugliano in un viaggio a Belgrado in un’atmosfera tra l’Erasmus e l’ultimo round di pugilato.
Ci sono poi Margherita Buy, già protagonista per Piccioni di “Fuori dal mondo” (2008), che ben interpreta il ruolo della madre di Caterina con l’esitazione e lo schiacciamento del genitore di fronte a una malattia grave di un figlio; e Sergio Rubini, che il regista lanciò ne “Il grande Blek” nel 1987 e che passa da giovane ribelle refrattario a padre conformista.
Sulla carta le questioni sembrano troppe e smisurate per esser affrontate in due ore sullo schermo. Invece Piccioni riesce con brevi grattate di quotidianità a spiegarci come sono i ragazzi di oggi, negli infantilismi e nel coraggio di affrontare un futuro senza paracolpi. Con un po’ di naïveté, ma con un’introspezione psicologica femminile sincera. L’opportunità di fare partecipare il film al Concorso è poi una falsa questione, visto che in gara c’è anche l’impensabile film sui cannibali e il Superquark di Terrence Malick.
Alle “Giornate degli Autori” è arrivato Pippo Delbono con un “Vangelo” che esplora il mondo dell’immigrazione già tanto battuto dal cinema italiano, da “La bàs” di Guido Lombardi che nel 2011 a Venezia vinse il Leone d’Oro del futuro, a “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, Orso d’oro a Berlino nel febbraio scorso. A loro, che devono nascondersi e vengono considerati clandestini, Pippo Delbono dà il nome degli apostoli, perché Cristo oggi li avrebbe scelti per portare il suo verbo. Sono immagini “sporche” quelle di Delbono, per un’operazione scardinata dai normali crismi del cinema, eppure il regista ci restituisce il dolore e l’autenticità che mette anche nel suo teatro in cui recitano gli emarginati. E’ Delbono il primo ad avvertire la sofferenza del prossimo e il pubblico la sente con lui.
In concorso poi è passato un veterano di Venezia, Andrei Konchalovsky, già Leone d’argento nel 2014 con “Le notti bianche di un postino” e Gran Premio speciale della giuria per “La casa dei matti” (2002). In “Paradise”, in bianco e nero, affronta il tema dell’Olocausto facendo parlare dall’Oltretomba un’aristocratica russa ebrea, che aiutava i bambini a mettersi in salvo, un francese filonazista e un ufficiale delle SS. Il maestro russo è sempre interessante. Lo stesso tema è affrontato nel bel documentario “Austerlitz” (Fuori concorso) di Sergej Loznitsa che ha puntato la macchina da presa davanti ai visitatori dei lager, registrando l’atmosfera da gita e le fotografie da trofeo sotto il cancello con la scritta “Il lavoro rende liberi”.