Venezia ’73 tra pesi Piuma e centrimetri di dimensione artistica

“Vergogna!” ha urlato la critica in sala al termine di “Piuma” di Roan Johnson, passato in concorso ieri alla 73esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Sembrava una platea per lo meno scoordinata, visto che si sono levate risa (e anche un applausino) durante la proiezione. I boati di disapprovazione non erano tanto rivolti al film, una commedia dolceamara sulle traversie di una coppia di ragazzi, Cate e Ferro, che decidono di tenere un bambino concepito per errore. Quanto alla direzione del festival che ha piazzato in gara una pellicola non allenata per il massimo campionato.
Johnson è rimasto su un terreno a lui familiare, quello dei ragazzi di “Fin qui tutto bene”, tra amarcord di sughi, feste e amori studenteschi. Ma oltre ai ragazzi, “Piuma” fa da specchio a una generazione di genitori capaci soltanto di crescere una mandria di “sdraiati” per dirla con Serra, che più che organizzare viaggi post scolastici non sa fare. Ce li ha raccontati anche Gabriele Muccino la scorsa settimana con “L’estate addosso”, ma si è fatto la sua passerella al Lido e poi si è fermato al cinema in Giardino, senza sfiorare la sacralità del Leone.
La sceneggiatura del film ha dei “non detti” molto divertenti, mescolati a luoghi comuni granitici: Cate (Blu Yoshimi) ha una famiglia alle spalle alquanto flebile (la madre rumena è tornata in patria pur di fuggire dal marito perditempo e scommettitore incallito) e proprio per questo è responsabile, brava a scuola. Ferro (Luigi Fedele) non è un fulmine tra i banchi, ha creato grossi problemi alla famiglia e non gli balena in testa nemmeno per un istante di industriarsi per mantenere la figlia che arriverà e che si chiamerà Piuma. Il suo ruolo è tenere botta a chi gli sussurra all’orecchio, per lo più in romanesco (sembra che in Italia al cinema esistano solo le borgate e i Parioli), che Cate dovrebbe abortire. Bravi i ragazzi a recitare, bravissima Michela Cescon (non ne sbaglia mai una) nel ruolo della madre di Ferro. Ma per il concorso non basta.
Altro evento della giornata è stato “Rocco”, documentario di Thierry Demaiziere e Alban Teurlai, alle “Giornate degli Autori”. Protagonista è il pornodivo ortonese Rocco Siffredi, famoso per essere un vero prodigio in prestazioni che per i più sono quasi impossibili davanti alla macchina da presa. La prima inquadratura è per ciò che lui chiama il suo “diavolo tra le gambe”, di dimensioni nettamente superiori alla media. Sarebbe stato lui, con la sua sproporzione, a rovinargli la vita: l’esistenza del pornodivo è infatti maledetta e terribile, racconta Rocco ai due registi che in passato si erano occupati delle biografie di Vincent Lindon, Fabrice Luchini e Karl Lagerfeld.
Così, tra (s)vestiti a rete che permettono libero accesso alle virtù meno evidenti delle donne, dichiarazioni di intenti (non avere nessun limite), aggeggi stimolanti e sadomaso, il pornodivo fa intuire come quello sia davvero un mondo per tosti, che la miniera in confronto è nulla. E poi di avere un cuore e molte fragilità, nonostante – per citare Elio e le storie tese per il collega John Holmes – tutti quei “centimetri di dimensione artistica”. Per esempio, la donna cui era più legato era la madre (fatto assai sensazionale) e mannaggia che ogni volta che fa un casting deve per forza testare la candidata. Lo rende piuttosto fiero il fatto che anche all’estero si dica che è un prepotente, che le ragazze dell’Est ne abbiano paura ma non vedano l’ora di finire sotto i suoi ferri del mestiere. E che perfino in America sia un divo tra le ragazze di un’agenzia gestita da un tizio, il cui aspetto basterebbe a confermare le teorie di Lombroso. Nonostante tanta agitazione ormonale, molta gente si assopisce in sala. E l’unico momento davvero interessante (e qui sta l’abilità mefistofelica dei registi) è il lampo di solitudine che attraversa Siffredi davanti allo sguardo imbarazzato dei figli adolescenti, quando li incalza a dare un’opinione su di lui. E’ la sua unica vera croce, non certo quella da cui scende nell’ultimo film, di cui è blasfemo protagonista, nella metafora cristologica della sua esistenza.