Al via il Trieste Film festival: Babai e l’infanzia perduta in Kosovo è un film da non perdere

Dal 22 al 30 gennaio si svolge il Trieste film festival: Nove giorni rivolti ad Est: dall’ironia sulle celebrazioni a Sarajevo di Žbanić, all’immigrazione da un metro di altezza

Ladro e ricettatore, clandestino nel bagagliaio di un auto o nella stiva di una corriera all’insaputa di tutti. Picchiato e picchiatore, quasi suicida sotto l’autobus su cui sale il padre per cercare fortuna in Germania. Nori (Val Maloku)- protagonista di Babai, film in concorso al Trieste film festival – ha dieci anni e vende assieme al padre Gezim (Astrit Kabashi) sigarette in un Kosovo imprecisato: il regista Visar Morina riprende solo cassonetti delle immondizie e quartieri scarnificati. Della madre non si sa nulla, salvo che Gezim è «quello lasciato dalla moglie», chiacchiera che Nori raccoglie col ghigno sordo di chi ha un solo obiettivo, non essere abbandonato di nuovo. E persegue il proposito come una necessità fisiologica, la sete o la fame.


Gezim ha il physique du rôle di un “medico in famiglia”, senza la disperazione degli spietati o la generosità del “padre-coraggio”, con la banale furberia di chi si allontana approfittando della commozione cerebrale del figlio, miracolosamente salvatosi dall’urto con l’autobus. Tra i due chi è capace di cattiveria scientifica è Nori: ruba allo zio i risparmi accumulati per il matrimonio del figlio, dopo aver cercato di vendere inutilmente al mercato nero il fucile di famiglia sottratto di notte. Il denaro serve per partire alla ricerca del padre, ma per raggiungerlo sceglie interlocutori simili a lui, bestialmente votati alla legge homo hominis lupus, che approfittano della sua minorità. L’infanzia in Babai non è un passaporto per sogni e prospettive, ma una mera deminutio fisica. A volte l’altezza è una specie di immunità: nessuno lo immagina capace di imbrogli ma arriva la scadenza e le punizioni sono amarissime. Come Antoine Doinel ne I quattrocento colpi, per Nori l’infanzia è soprattutto solitudine e arrangiarsi a sopravvivere nella società albanese, con le sue formalità – i lunghissimi e quasi comici riti di richiesta sullo stato di salute di ciascun componente della famiglia -, le sue tradizioni – il matrimonio imposto al cugino segretamente omosessuale -, i castighi alla Padre padrone.
La Storia di un’epoca e di un Paese passa attraverso i gommoni che imbarcano assieme ai profughi crudeltà e bontà raccogliticce, presto rinnegate; il randagismo versus le regole dei centri di accoglienza. Ma sono solo lo sfondo alla caparbietà di Nori, illuminata dalla bella fotografia di Matteo Cocco (che ha firmato anche quella dell’intenso Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino). Babai è ben girato, ben scritto dallo stesso regista, al suo primo lungometraggio, peccato che nel finale sminuisca di forza. Ma è una piccola macchia, perché l’infanzia sofferta è difficile da raccontare senza sbavature; le ultime mirabili imprese sono Sister (2012) di Ursula Meier e Tom boy (2011) di Céline Sciamma.

Nella nutrita sezione dei documentari fuori concorso del Tff c’è Jasmila Žbanić, già Orso d’oro a Berlino per Il segreto di Esma nel 2006. Con l’ironia indagatoria, la leggerezza che si mangia la tragedia, fotografa la sua Sarajevo durante le celebrazioni nel centenario dell’attentato di Gavrilo Princip all’imperatore austrungarico Franz Ferdinand, avvenuto nella capitale bosniaca il 28 giugno del 1914. Un’opera collettanea, girata con i telefonini, che riprende turiste giapponesi sulla carrozza della rievocazione con Franz Ferdinand subito dopo la sua uccisione (!). Mentre davanti al luogo del delitto (per i bosniaci) o dell’atto di eroismo (per i serbi) passano in rassegna le più strane tipologie di nostalgici: due sacerdoti anti socialisti in tonaca svolazzante; il fiero pronipote del cuoco dell’arciduca; un artista performer vestito di bianco alla Kusturica che spara contro i vetri delle macchine getti d’acqua e chiede un obolo. A chi lo invita a portare rispetto per l’atto che scatenò la Prima guerra mondiale, risponde «Anche la mia disoccupazione è una tragedia».Tra i documentari in concorso, Brothers, già miglior film della settimana della Critica di Locarno, di Wojciech Staroń che registra il ritorno in Polonia di due vecchi fratelli, l’uno pittore, lungo come un fuso e abile ginnasta, l’altro tarchiato, pragmatico ingegnere, affaticato dalla vita. Legati ombelicalmente da un filo litigioso, assistono (assieme al regista) all’incendio della propria casa, cui sono tornati dopo la deportazione in Siberia. Per tutto vale il loro sguardo sfuggente e disilluso mentre guardano la parata sovietica, trasmessa alla televisione.

la rassegna
Si apre con «Sole Alto» (venerdì 22 alle ore 20, in seguito il concerto dei Sinkauz Brothers, autori della colonna sonora) la 27esima edizione del Trieste Film Festival (dal 22 al 30 gennaio). Ogni giorno alle 11 all’Antico Caffè San Marco i registi e gli attori incontreranno il pubblico per parlare dei film del giorno precedente. Tra gli appuntamenti, il 23 «The Red Spider» di Marcin Koszalka, che il 25 gennaio terrà una masterclass. Il 24 Iréne Jacob presenta «Tre colori: Film rosso» per l’omaggio a Kieslowski; il 25 c’è Vitalij Manskij con «Under the Sun», girato in Corea del Nord; il film di chiusura è « Chant d’Hiver» di Otar Iosseliani (sabato 30). www.triestefilmfestival.it